Pubblichiamo oggi la seconda parte dell’intervento su Elisabeth di Paolo Sortino, di cui qui si trova l’inizio.

 

3. La rappresentazione

Diversamente da quanto ci si aspetterebbe, la narrazione non è orientata a una resa quanto più asettica e neutrale possibile dell’orrore della vicenda. E nemmeno a una programmatica insistenza, verbale e tonale, sui caratteri violenti, sadici o macabri dell’episodio. Piuttosto che far emergere la tragedia attraverso un meccanismo rappresentativo di autoevidenza o, al contrario, di enfatizzazione, Sortino predispone una «macchina trasfigurativa», capace di produrre immagini e, attraverso queste, di evocare il dolore e l’umanità del dolore stesso nella loro essenza più pura. Non è necessario un narratore impersonale per fare questo. A chi parla è consentito far mostra della propria presenza: ma si tratta di una presenza particolare, che non incombe con il giudizio, bensì con quella che potremmo definire una soggettività tutta verbale, insita nelle figure composte con le parole. Le sentenze, le chiose morali, che pure scandiscono la narrazione connotandola fortemente, si assimilano a questo proposito di trasfigurazione: la realtà verbalizzata nel racconto è quella prodotta da uno sguardo esterno alla storia ma che prova a radicarvisi intimamente, senza escludere alcuna prospettiva. La scrittura è sicura, costante e coerente lungo tutto l’arco della narrazione. Eppure si producono, in alcuni momenti di passaggio, quasi «secondari», rarissime ma significative smagliature. In un frangente emerge improvvisamente un dubbio: «pensò sarcastico di imitare l’entrata in scena del personaggio di quel libro noto, che essendo Josef un uomo di soli cominciamenti, quasi di certo non aveva finito di leggere» (p. 47, corsivo mio). Il narratore, per un attimo, lascia intravedere il lavoro, che è tutto dell’autore, di immedesimarsi nei personaggi ai quali prova a dare vita, dei quali vuol provare a comprendere e a far comprendere l’esperienza «universale». In questo passaggio risiede tutta l’incertezza e insieme il peso della scommessa di un libro come questo, che accetta il fallimento, accetta il tradimento (che è peggio) della realtà, ma al nobile fine di provare a restituire, ad arricchire un’esperienza che rischia invece di venire defraudata dall’invasione banalizzante del discorso quotidiano, mediatico. E per farlo ci vuole tutta la presunzione di un narratore che crede di poter indovinare anche le semplici abitudini di lettura di un personaggio, deducendole da un tratto del carattere che avrà ricostruito a tavolino, decrittando articoli di giornali e interviste esclusive. Formalmente questa smagliatura è interpretabile come un errore; ma è un errore carico di debolezza e volontà umane di fronte all’enorme problema della rappresentazione della verità del reale.

Da questo momento in poi tutte le volte che, leggendo, incappiamo in degli «immaginiamo» o «dobbiamo supporre» non potremo fare a meno di rilevarne il valore attenuante nei confronti della realtà della vicenda raccontata: gradualmente la condizione di «non esperto» dello scrittore diventa una costante, quasi che ormai anche chi racconta sapesse che non è più necessario nascondere questa presunta parzialità dello sguardo, perché il suo tentativo di far comprendere che la verità è altrove ha fatto breccia in chi legge. Per questo stesso motivo assume un valore nuovo ed estremamente significativo l’improvvisa comparsa di un «In verità» (p. 106): non sappiamo chi lo pronunci eppure comprendiamo che allude a un diverso livello di verità. È una verità che non si fonda sulla conoscenza dei fatti, sulla possibilità testimoniale, bensì sulla capacità di comprendere l’uomo e di rappresentarlo attraverso le parole. «Chi finge contiene una quantità contagiosa di vita e di voglia di esistere» (p. 192): in questo caso sono le parole a generare la «finzione». Perché sono le parole che comunicano la conoscenza, sono le parole che ci lasciano intuire la profondità di un pensiero. È dalle parole che noi giudichiamo chi scrive e il suo discorso. È nelle parole che risiede la verità di Elisabeth.

4. Le parole

Lo stile che Sortino crea e riesce a conservare lungo tutta la narrazione è necessariamente serio. La parola è chiamata a tutelare l’estrema dignità di un’esperienza umana di fianco alla quale non è azzardato, per certi aspetti, porre a confronto la tragedia della Shoah (chiamata in causa esplicitamente dall’autore stesso nell’ultimo capitolo, quello della liberazione, o «deportazione»). Il tono costantemente alto – fatti salvi rarissimi, ma fisiologici abbassamenti – trasmette l’impressione che nel dolore mostrato ci sia qualcosa di sacro, e che pure è necessario violare perché sia conosciuto. Anche per questo la scrittura procede costantemente sul confine con lo scadimento in un’enfasi pateticamente tragica. L’autore è molto attento nelle scelte linguistiche, attraverso le quali altera e increspa continuamente la linearità narrativa per non lasciar cadere nel buio della normalità una realtà che invece deve emergere abominevole in tutta la sua autoevidenza. Ma l’estremo, lo si è detto, non ha qui bisogno di essere stimolato: è e rimane, nella sua fredda, mortale essenza, la pre-condizione di questa narrazione. Chi racconta può limitarsi a suggerire un particolare senza accentuarlo. Le deformazioni dei bambini partoriti da Elisabeth non necessitano di indugi descrittivi: un morso inverso notato solo dopo anni è sufficiente da solo a suggerire la ribellione «della loro storia contro il destino che le si voleva imporre» (p. 141). Anche se non manca il ricorso, ormai tipico di certa narrativa nostrana, al particolare anatomico specialisticamente evocato, lo sfruttamento della ruvidità del termine medico (come «sinfisi», p. 72) per produrre una percezione straniata, per rendere sgradevole l’osservazione del particolare altrimenti normale, qui – lo si può dire con piena onestà intellettuale – lo stilema è funzionale, quasi necessario. Diversamente dalle narrazioni che provano ad evocare un trauma che invece non c’è (cfr D. Giglioli, Senza trauma, Quodlibet 2011), qui è fondamentale trasmettere l’impressione di una fuoriuscita dalla norma, dall’umanità stessa: e se la tecnicalizzazione del lessico (peraltro mai abusata) può contribuire all’effetto, allora non ha bisogno di giustificazioni.

Mirabile è la capacità di Sortino di trovare in questa ributtante materia l’ispirazione per un catalogo di immagini che, nella vasta gamma di atmosfere e sentimenti che sono in grado di richiamare, conservano una pregnanza a un tempo verosimile e stupefacente: è un repertorio tanto vasto da toccare tutte le regioni dell’immaginario emotivo, dandogli spessore figurativo e profondità morale. Lo scrittore mostra una padronanza della lingua che ci lascia continuamente stupiti e commossi: «Oltre ottocento stupri e altrettanti stupori per aprire la palpebra della coscienza e altre mille violenze per imparare a disattivarla» (p. 81). Un’immagine riesce a evocare la potenza di un sentimento conservandone tutta la complessità e l’ambiguità, mettendola al riparo dal patetico e, peggio, dal tragico esasperato. «Continuava a sorridere invece, guardando entrambi gemelli in uno sguardo solo» (p. 161): questa è la didascalia alla tragica morte di un figlio appena partorito e alla parallela gioia per la sopravvivenza del gemello. L’inscindibile legame tra vita e morte proprio del bunker trova così un riscatto degno e doloroso.

Insieme alla metafora, alla capacità di rendere ogni particolare una «figura», un disegno, è lo straniamento il procedimento retorico impiegato maggiormente per conferire un carattere perturbante alla rappresentazione: forte è l’angoscia provata da chi legge quando si trova ad accogliere il punto di vista «ingenuo» di uno dei figli emozionato e stranito di fronte allo spettacolo di una piscina sotterranea che vorrebbe riprodurre la realtà di un mare mai conosciuto (p. 190). Non c’è più normalità perché abbiamo fatto nostra la dimensione della reclusione e dell’esclusione dal mondo: non conoscendo le reali proporzioni del conflitto tra uomo e natura si può anche credere che «la materia era stata resa fluida: grazie a una semplice monetina, il padre era riuscito a commuoverla» (p. 190).

È l’apoteosi di questa «allegoria anti-umana» prodotta nella realtà da Josef Fritzl e riprodotta in letteratura da Paolo Sortino. Seguirà una conclusione che non toglie né aggiunge nulla a quanto letto: non si troverà lì il senso dell’opera e la verità dell’uomo. «Ogni storia vera non può finire, è assurdo anche solo credere il contrario. Da qualche parte dev’esserci ancora una parola» (p. 215).

5. Conclusione

Rimane, in conclusione, una domanda, legittima e che ci serve a comprendere in termini assoluti – se mai fosse possibile – il valore di questo romanzo: ci avrebbe colpito così nel profondo se, al posto di una tragica vicenda di pubblico dominio, fosse stata raccontata una storia di pari crudeltà e violenza ma frutto dell’immaginazione dello scrittore? È difficile trovare una risposta che raggiunga un valido grado di certezza. Eppure mi viene da dire di sì. Ed è un’affermazione di forte volontà questa, che vuole porsi in consonanza con l’estrema e responsabile fiducia che Sortino ha riposto nelle proprie parole, nella propria scrittura, nella propria costruzione: in una parola, nella propria consapevolezza di fare Letteratura.