di Francesca Salamino

 

To Rome with love. Un titolo in cui risuonano fin troppe suggestioni, dall’arci-nota melodia di From Sarah with love ai più recenti ciak di From Paris with love: a tal punto che, prima di aver guardato il film, ci si chiede quale sorta di errore stilistico ma voluto si nasconda dietro a questo titolo. A Roma con amore? Al di là delle traduzioni sempre un po’ pruriginose, anche quando così fedeli, dei titoli, non sarebbe stato meglio Da Roma con amore? Perché, in tal caso, la mente avrebbe avuto licenza di far partire in loop immagini rocambolesche di persone eccitate e folgorate che girano come trottole da un vicolo all’altro, raccontando di quanto sia speciale la vita da eterni turisti, per di più nella città che più eterna non si può. Per fermare poi il nastro sul loro primo piano dal sorriso forzato e smagliante, fissato una volta per tutte a mo’ di cartolina.

Che noia? Già visto e sentito? Infatti. Woody Allen ha voluto sicuramente fare di più.
To Rome with love, oltre a proseguire la (ormai esplicita) tradizione dei film nelle città ma non sulle città degli ultimi anni (Vicky Cristina Barcelona, Incontrerai l’uomo dei tuoi sogni – girato a Londra –, Mezzanotte a Parigi), piaccia o meno vuole essere una panoramica sulle umane vicende. Non a caso, il titolo originario era The Bop Decameron, un coup de dés che lancia sul tavolo da gioco un insieme caleidoscopico di storie, con un (forse) omaggio a quella declinazione particolarmente libera e dissonante del jazz americano anni ’40. E non a caso, allora, i campi lunghi e le panoramiche sui tetti romani ripresi dall’alto del Pincio o da ricche terrazze della Capitale: come a voler racchiudere in un colpo solo tutte le varietà del reale.
Ma ci sono scelte d’ambientazione anche più specifiche: aree storiche e monumenti sono spesso e volentieri lasciati sullo sfondo (Hayley, turista americana, chiede informazioni a Michelangelo in una Piazza Venezia non troppo enfatizzata; la visita notturna di Jack e Monica alle rovine, dove ciò che conta di più è il loro trasporto erotico); intanto, moltissimi interni e soprattutto strade sconosciute e vicoletti la fanno da padrone. Forse, la pecca di questo film sta proprio qui.

Ma di che storie parliamo: il tanto declamato «uomo banale», pur interpretato da un consueto Benigni sopra le righe, che si ritrova d’improvviso e irragionevolmente famoso a dover raccontare come grandi eventi perfino i gesti più quotidiani. La coppia di giovani sposini ingenui e inesperti a cui, come una forbice, serve sperimentare la divaricazione per ritrovare l’unione. Il giovane studente di architettura fuori sede che, pur messo in guardia, si lascia ammaliare da un’aspirante attrice egocentrica e incantatrice. Due fidanzati felici che tentano di conciliare la diversità geografica e culturale delle rispettive famiglie. Famiglie che contrappongono le figure di un impresario teatrale semi-fallito e di un cantante dalle discrete doti operistiche ma che si esprime al meglio soltanto nell’intimità della sua doccia.
Il tutto nella cornice di un racconto che si apre e si chiude sulla voce di un vigile, il quale pare orchestrare dal suo punto di vista interno ma onnicomprensivo tutte le novelle.

Eppure, questo insieme eterogeneo e composito sembra giocare d’azzardo con un’atmosfera che ha dell’onirico. Leopoldo è prima sbigottito dalla propria popolarità tutt’altro che meritocratica ma, non appena sembra goderne, gli viene strappata da un altro uomo qualunque, rivelando la tragicomicità di una situazione che, dimenticata da tutti, pare non essere neanche mai stata vissuta. Antonio e Milly indossano abiti anni ’50, lui ansiotico e lei dall’aria costantemente trasognata, regalandoci uno spaccato anacronistico di coppie italiane alla «come eravamo». Jack, nella sua discesa agli inferi di cui è regina l’attraente Monica, si accompagna all’esperto architetto americano John, inizialmente figura dai contorni realistici, poi sempre più proiezione futura del giovanotto al quale cerca invano di evitare errori già commessi, compreso quello di non lasciare che «le cose succedano» (dai sogni delusi di aspirante architetto d’arte divenuto costruttore di centri commerciali). Jerry e la moglie Phyllis, padre e madre della giovane americana, si barcamenano tra ansie e ironie alla ricerca della serenità da pensione, mentre gli schivi genitori del giovane Michelangelo si lasciano convincere nella folle impresa di riproporre l’opera sotto la doccia, anche in teatro, col risultato di spettacoli che del postmoderno hanno solo le carcasse.
Perfino Roma sembra inverosimile, attraverso gli accostamenti di antico e moderno (rovine e auditorium di Renzo Piano) e luoghi meno battuti cinematograficamente.

Non pare consistere alcuna critica o presa in giro nei confronti dell’italianità, pure ventilata da molti, per un film che, davvero, ha così poco a che fare con il contesto in cui è calato. È reale la presenza di una fotografia dalle caratteristiche nostrane (diretta da Darius Khondji, lo stesso di Mezzanotte a Parigi), con una romantica luce da tramonti sui colli, come è reale e fitto l’accompagnamento musicale italianistico, dalla grande opera a Modugno. Ma, se non è presente controversia, non è nemmeno presente alcun omaggio. Tutti, in qualche modo, si recano a Roma portando con sé il loro particolare tipo di amore, ma senza che il luogo e l’oggetto interagiscano in maniera determinante. Ecco cosa lascia l’amaro in bocca: i luoghi e le atmosfere da essi evocate, risultano in qualche modo vuoti e privi della pregnanza che ci si attenderebbe da un film che, sin dal titolo, sembra portare con sé l’attesa di una Roma interpretata, definita, giudicata alla luce di un filo conduttore.

Non mancano le battute folgoranti del più fecondo Woody Allen («Io come quoziente d’intelligenza ho 150/160» – «Stai calcolando in euro: in dollari è molto meno, tesoro», rese peraltro in italiano dal nuovo doppiatore Leo Gullotta) e non manca la bravura di attrici straniere che recitano in italiano, come Carol Alt e Penelope Cruz (la quale riesce perfino nella comicità: «Lavorare tutto il tempo sdraiati sulla schiena: non lo posso immaginare!» – «Io sì.»). Non mancano nemmeno partecipazioni illustri al cast, come Antonio Albanese, Isabella Ferrari, Ornella Muti, Lina Sastri, Riccardo Scamarcio.
Tutto questo però non basta a riscattare la sensazione di insoddisfazione generale, soprattutto al degenerare di Allen in un’imitazione stucchevole quanto ingiustificata di se stesso: un esempio su tutti, l’atteggiamento di ostentato fastidio verso la maggior parte delle attività umane (questo, sì, già visto e sentito milioni di volte).

C’è di più: si sa certamente dall’inizio che non si tratterà di un documentario sulle bellezze della città eterna, ma torna alla mente Barcellona, che rappresentava quantomeno l’ambientazione ideale per una vacanza al femminile, o Parigi che non poteva che essere Parigi, dato il suo carattere di crocevia d’artisti in un certo periodo storico. Con l’ultima pellicola, invece, abbiamo suggestivi e appartati angoli romani di vita popolare (come il quartiere della Garbatella) o familiare, con un potenziale che non sembra però approfondito. Pur apprezzando allora la piacevolezza delle storie rappresentate e lo stile che non smentisce mai il grande regista e autore, al riaccendersi delle luci in sala viene da chiedersi: tutto qui?
Il dubbio iniziale non è quindi sciolto ma, anzi, si acuisce: Woody Allen ha probabilmente voluto fare di più. Ma perché Roma? E perché A Roma? E infine: qual è l’insegnamento, se c’è, di queste novelle? Dobbiamo farci bastare un’altra, pur magari ironica, interpretazione dell’amore all’italiana?

To Rome with love, (Italia, USA, Spagna 2012), 111 min. di Woody Allen, con Woody Allen, Carol Alt, Alec Baldwin, Roberto Benigni, Penelope Cruz, Alessandra Mastronardi, Ellen Page, Flavio Parenti, Alessandro Tiberi.