Non voglio raccontare la trama di questo libro, non è questo che fanno le recensioni, no, dicono se un libro è bello oppure brutto, ma non lo raccontano. Eppure in questo caso sembra molto difficile staccarsi dalle immagini, dall’ambientazione e, ancor  più, dalla vera e propria narrazione, dai colori, dai personaggi.

Giovanni Montanaro, scrittore classe 1983, giunge con Tutti i colori del mondo (2012, Feltrinelli) al suo terzo romanzo. La prosa e lo stile non sembrano eccessivamente complessi, ma questa semplicità consente alla vicenda di scorrere sotto gli occhi del lettore (a parlare in prima persona è la protagonista, cui non sarebbe stato credibile attribuire una forma troppo raffinata perché figura non erudita). Una scrittura molto buona, educata e pulita ma efficace.

Tutto inizia nel piccolo paese di Gheel (Geel) in Belgio, dove sin dal XIII secolo il santuario di santa Dinfna richiamava persone affette da malattie mentali in cerca della guarigione. La struttura assistenziale che si venne a creare spontaneamente e poi venne sostenuta dallo stato è un caso unico, in cui i cosiddetti matti venivano inseriti nelle famiglie del paese e vivevano, quindi, fianco a fianco con gli abitanti normali.

E poi c’è Van Gogh in questo libro, proprio in quel periodo sconosciuto della sua vicenda umana, il momento in cui da uomo tormentato diventa artista tormentato, il momento che ci ha donato la sua arte, i suoi quadri e i suoi colori. Un punto decisivo ma oscuro della vita del grande pittore (di cui viene ricordata anche la fallita visita a Jules Breton). Montanaro immagina che Van Gogh, nel suo lungo peregrinare a piedi, sia passato in questo “paese dei matti”, proprio lo stesso dove il padre aveva minacciato di mandarlo per i suoi comportamenti, e vi ci sia fermato come ospite per un breve periodo e dove avrebbe scoperto i colori.

In tutto ciò, che è già davvero molta carne al fuoco, si innesta la vicenda di Teresa Senzasogni, la protagonista, che scrive direttamente le lettere di cui noi siamo lettori. Il punto di vista univoco da cui viene raccontata la vicenda è il suo, figlia di una malata di mente morta di parto e cresciuta nel paese di Gheel. Teresa, da quel che racconta, ebbe l’avventura di incontrare Van Gogh e di innamorarsene, e a distanza di anni si trova a scrivergli queste lettere.

Il finale del libro ci rivela un colpo di scena riguardo la protagonista e narratrice che viene a stravolgere la nostra visione dell’intera opera, e che ne fa virare una parte di senso verso l’individuazione dell’identità: cos’è la normalità? Qual è la nostra essenza? La definizione di se stessi? (e quale pittore mai più di Vincent Van Gogh tentò di raggiungere e toccare l’identità con i suoi molteplici autoritratti?). Una conclusione che relativizza quanto letto in precedenza, toccando a fondo il lettore, soprattutto tramite la scoperta dell’inattendibilità della narratrice. Il lettore, quindi, scopre alla fine di aver vissuto la vicenda tramite degli occhi che la morale considererebbe in qualche modo sbagliati.

La copertina scelta per l’opera sembra a un primo impatto fredda e glaciale, quasi poco amichevole, distante dai colori di Van Gogh, distante dal libro, ma credo sia in sintonia proprio con l’ultima parte del testo (anche se non riesco a togliermi di mente l’idea di come sarebbe risultata un’opera di Van Gogh in copertina, ben chiaro, a quel punto, non un autoritratto).

Tutti i colori del mondo sembra però, in qualche modo, bloccato tra due generi letterari. Troppo lungo per essere un racconto lungo, che avrebbe potuto permettersi di rimanere superficiale su molte cose, troppo breve per essere un romanzo, che invece avrebbe potuto sviluppare i molti spunti e le molte tematiche in modo più compiuto. Tutto sommato è avvicinabile alla forma racconto lungo, ma introducendo troppi elementi e dando l’impressione di non svilupparli appieno lasciando, così, un po’ d’amaro in bocca al lettore.

Mi è sembrato di trovare anche un certo allentamento della tensione narrativa nella parte centrale, un pochino troppo lunga, in cui si attende inutilmente il clou del romanzo che viene poi inserito bruscamente solamente nel finale, finendo per presentarsi come soluzione deus ex machina.

Questa svolta così secca risponde alla brusca virata culturale, rappresentata dall’introduzione del manicomio (antitetico al modo di vita di Gheel) e della figura del dottor Tarascon che arriva a portare i metodi della medicina in maniera violenta, la visione che la nostra società ha avuto della malattia mentale e della anormalità. Viene così inserita un’altra tematica nel testo, ma davvero moltissimi sono i temi che vengono toccati: i diritti dei malati, i soprusi compiuti in nome della scienza e dalla società, l’identità sessuale, la normalità e l’accettabilità sociale, la vita del piccolo paese descrittoci nei suo diversi personaggi, addirittura i diritti dei lavoratori delle miniere. Il lettore si trova a vivere anche questi stravolgimenti con gli occhi di Teresa sentendosi direttamente coinvolto in questa violenza, direttamente colpito dalla disgrazia della protagonista.

I lati positivi sono comunque moltissimi, e le vicende di Teresa Senzasogni (nome affascinante) appaiono strazianti e commoventi. La presenza di Van Gogh e del paese di Gheel aggiunge fascino alla vicenda, e la svolta finale riesce a rimettere in discussione tutto. Forse avrebbero meritato una trattazione più lunga, forse avrei voluto conoscere meglio Teresa.

Vale sicuramente la pena di leggere questo breve romanzo che, oltre ad avere un finale sorprendente, pone domande, spunti di riflessione, di interesse e di approfondimento in grande quantità. Tutti i colori del mondo  è anche stato scelto quest’anno tra i cinque finalisti del Premio Campiello, il cui vincitore verrà annunciato il 1 Settembre.

Giovanni Montanaro, Tutti i colori del mondo, Narratori Feltrinelli, 14.00 €