di Luca Ghirimoldi

Meglio essere felici che avere la verità in tasca

(Slartibartfast, il costruttore di mondi)

Autore insieme di culto e di successo, Douglas Adams (1952-2001) ha dato vita con la sua Hitchhicker’s Guide to the Galaxy ad una fortunata serie di romanzi, iniziata nel 1979 come spettacolo radiofonico per la BBC, cui va senza ombra di dubbio riconosciuto il merito di aver saputo rileggere il genere fantascientifico con una doverosa dose di disincantato umorismo. Sorprenderà forse i puristi del genere – e, più in generale, gli strenui difensori della naturale superiorità del libro sul film che ne viene tratto – che la stessa carica ironica e dissacrante sia anche nell’omonima pellicola firmata qualche anno orsono da Garth Jennings (più noto come autore di videoclip), capace, alla prova dei fatti, di rivaleggiare e spesso superare in risate l’apprezzabilissimo ma ingombrante antecedente.

La trama è presto riassunta: Arthur Dent (Martin Freeman, che vedremo a fine 2012 nei panni di Bilbo Baggins de Lo Hobbit), ingenuo terrestre britannico, si sveglia un bel mattino mentre un caterpillar sta per demolirgli la casa, tristemente destinata a far posto ad un’inutile autostrada. Per giunta, questo è solo il minore dei mali: lo stralunato protagonista viene pure avvisato da un suo fraterno amico, Ford Prefect (il rapper Mos Def) – in realtà, un alieno camuffato tra noi – che la Terra stessa ostacolerebbe la costruzione di una strategica arteria di traffico interplanetario e che quindi il pianeta sta per essere vaporizzato via dalla galassia dalla flotta dei burocrati Vogon. Arthur e Ford riescono a fuggire dall’orbe terracqueo qualche istante prima della catastrofe, e il comprensibilmente sconvolto protagonista decide che suo dovere è ripristinare l’ordine, rimettendo insieme, se possibile, i miliardi di pezzi in cui il suo (e nostro) mondo è stato disintegrato. Come in ogni trama di science fiction che si rispetti, lo sventurato Dent sarà costretto a viaggiare ai quattro angoli della galassia in compagnia di improbabili compagni di viaggio per reclamare il proprio diritto, giuridico ed esistenziale, ad una vita non tormentata dai cosiddetti ‘poteri forti’, provando nel mentre a conquistare il cuore della bella Tricia, detta Trillian (Zooey Deschanel), altra terrestre coinvolta negli eventi.

In ballo, sostanzialmente, è il destino dell’umanità. Ma la Guida galattica fa da subito il verso, sia sulla pagina scritta che sulla pellicola di celluloide, all’improba tematica della salvezza di miliardi di vite; e ciò avviene in virtù di un pervasivo accento di singolare leggerezza, di una spontanea ingenuità del protagonista (ma pure di chi narra) che funge quasi da tutela rispetto al caos intergalattico e ai rischi di un’eccessiva seriosità. Il buon Arthur si interroga infatti, in pigiama e con il fido asciugamano al seguito, sul perché del disastro, sulla vita abitudinaria che gli è stata strappata via d’un colpo, e quindi sull’effettiva necessità di restaurare l’ordine del “così com’era un volta”. Una riflessione, alleggerita dal vuoto siderale e dall’assenza di ‘gravità’ terrestre, che tocca però le arcinote domande universali, contaminandole preventivamente con il gusto del non-sense e del paradosso, che i lettori di Adams conosceranno a menadito. L’astro-commedia viene così vivacizzata da personaggi e situazioni al limite dell’universo e dell’assurdo; risorsa felice della sceneggiatura, cui ha partecipato l’autore stesso, è per l’appunto quella di coniugare – con soluzioni che spesso sorprendono per il ritmo e lo humour che la pellicola riesce a distillare –  riflessione di stampo canonico ed ‘ufficiale’ con la demenzialità dei protagonisti e delle situazioni cui si va incontro.

Emblemi di questa fantascienza a metà strada tra convenzioni di genere e capovolgimento umoristico-paradossale, sono due oggetti con cui i nostri eroi hanno a che fare: il “motore ad improbabilità infinita“, che equipaggia l’astronave fuoriserie, la “Cuore d’Oro”, con cui la truppa di Zaphod fugge per le galassie e la Hitchhicker’s Guide medesima, che Ford, con astuta mise en abyme, affida ad Arthur nei primi minuti del film. Nel primo caso, il propulsore che guida l’astronavicella verso il pianeta di Magrathea è manifesto della narrazione stessa: la quinta dimensione, quella della probabilità, viene sfruttata per viaggi ad una velocità superiore a quella della luce, che accidentalmente possono pure trasformare le fattezze esterne dei protagonisti (provare per credere…). Il ‘motore’ dell’intreccio, con i suoi modi picareschi disinvoltamente lucidi, spiega così che sono il caso e l’improbabilità a reggere le sorti delle nostre vaneggianti menti, umane e meno: quali e quante che siano le nostre pretese di scientificità razionale o i nostri desideri di pace domestica, conviene di tanto in tanto scendere a patti con la vita reale. Dall’altra parte, l’altro strumento che riunisce in sé – per giunta, nel modernissimo formato dell’e-book – il sapere enciclopedico della galassia vede tra i principali motivi del suo successo il prezzo accattivante ed il fatto che in copertina c’è scritto grosso: “Don’t panic”. La Hitchhicker’s Guide non è la punta d’iceberg di una complessiva smitizzazione, corroborata dalla magistrale scena sulla poesia vogoniana, del sapere umano, e del sapere in generale: Babele è la norma dell’universo. Ne risulta che ci si può interrogare sul senso della vita, ma non ci si deve aspettare una risposta compiuta; si può costruire un super-computer – chiamato guarda caso “Pensiero Profondo” – per avere tutte la celeberrima risposta “alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto”, ma questa servirà solo a confonderci di più, se non sappiamo fare le domande giuste.

Ma attenzione, perché la specola d’osservazione non è affatto banale o banalizzante: il motore, alla fine, porta a Magrathea, dove anzi apprendiamo che la nostra vituperata e vaporizzata Terra era addirittura la matrice costitutiva per elaborare la vera domanda per avere la vera risposta. La Guida, pur nel suo scanzonato divertissement da narratore onnisciente, rimane tuttavia il mezzo più affidabile per gli sballottati protagonisti; quello che compare sullo schermo a cristalli liquidi è anzi un sapere efficace ed alla mano, che dice cosa fare senza troppi fronzoli, senza le assurdità delle tangenziali “da fare” o dei moduli per l’inseguimento cui occorre firma e controfirma. Così pure quel beota del presidente galattico di Zaphod Beeblebrox (edonista e truffaldino, meschino e clownesco, affabilissimo ruffiano soprattutto nel film: ma si capisce che qui dalla fantascienza si passa alla cronaca locale…), sono ben più vicini al nostro pianeta di quel che si potrebbe inizialmente immaginare.

Purtroppo per noi, il migliore dei mondi possibili non esiste – ovviamente; ma ne esistono molti, magari copie l’uno dell’altro od ordinati su commissione, come ci assicura Slartibartfast, l’ingegnere che ha costruito il nostro pianeta. Ha allora ragione Arthur, quando dice di aver capito che, al di là di tutte le verità filosofiche, ciò che conta è essere felici con chi si ama? Citando l’arma risolutiva di Marvin, robot cosmicamente depresso, risponderemmo che è sempre questione di “punti di vista”. Di fronte al soffocante e veramente letale atteggiamento vogoniano, che afferma che “è inutile fare resistenza”, e al cospetto del Caso infinito (per cui un capodoglio può precipitare dal cielo scoprendo i nomi delle cose come un novello empirista, in quella che forse è la scena migliore di tutto il film), vale probabilmente tenere a mente una norma esistenziale più duttile e modesta. Sapremmo più cose sull’universo e su noi stessi non con le risposte definitivamente universali, ma chiedendoci perché l’unica domanda di una begonia nella stessa situazione del succitato cetaceo sia stata: “Oh no, un’altra volta…”

E poi, rimane il dubbio: Slartibartfast ha davvero ragione?

Guida galattica per autostoppisti (USA/GB, 2005), 110 min., di Garth Jennings, con Martin Freeman, Mos Def, Sam Rockwell, Zoey Deschanel, Bill Nighy, John Malcovich.