Esce oggi la prima parte di un lungo articolo su Senza trauma, breve saggio di Daniele Giglioli (Quodlibet 2011), che rappresenta a nostro modo di vedere uno dei più stimolanti (e discutibili) esempi di critica militante degli ultimi tempi. A breve seguirà la seconda parte. 

La saggistica è notoriamente un genere di scrittura che in Italia non riesce a godere di un vasto pubblico. Eppure, in una civiltà in cui il discorso pubblico si è uniformato sui caratteri della chiacchiera, questo genere di scrittura può rappresentare uno dei rari momenti di riflessione sui temi più emblematici e significativi della nostra contemporaneità, appena prima o appena dopo che questi vengano trasformati in semplici etichette di verità confezionate. Quando poi i saggi sono condotti attraverso un uso della lingua volutamente antioscurantista, disinvolto e piacevole, allora è davvero un peccato che rimangano appannaggio della solita (e sempre più autoreferenziale) élite intellettuale.

Potrebbe essere questo (e il condizionale è tutto di speranza…) il caso dell’ultimo libro di Daniele Giglioli, Senza trauma. Scritture dell’estremo e narrativa del nuovo millennio (Quodlibet 2011). Si tratta di un tentativo di proporre una lettura in qualche modo unilaterale – perché «a tesi» –, ma di notevole valore orientativo, di una gran parte della produzione narrativa italiana degli ultimi dieci anni. È questo il motivo che dovrebbe spingere qualunque amante della lettura ad affrontare quest’opera, tanto attraente per la consistenza fisica (appena 115 pagine!) quanto ricca di spunti critici e connessioni interdisciplinari. Rappresenta infatti una buona occasione per provare a mettere ordine in quella sempre più vasta congerie di romanzi che si affollano sugli scaffali delle librerie e che non possono essere considerati esclusivamente per la soddisfazione emotivo-intellettuale che ci procurano o per il loro significato intrinseco.

Il punto di partenza dell’analisi di Giglioli è una considerazione non legata strettamente al letterario, ma che lo coinvolge considerevolmente in quanto forma di rappresentazione dell’esperienza – ma sarebbe meglio dire della «crisi dell’esperienza»: esiste una differenza tra ciò che noi consideriamo – con un po’ di superficialità, ci fa capire il critico – realtà, che «coincide sempre più con la sua rappresentazione», e quello che lui definisce il Reale, «un punto di fuga che la trascenda pur restandole complanare» (pp. 1-6). Ciò che separa queste due forme dell’esperienza è propriamente la possibilità di essere simbolizzate, ovvero tradotte in rappresentazione: «a differenza della realtà, il Reale è ciò che resiste testardamente a ogni tentativo di simbolizzazione. È un buco nell’ordine simbolico» (p. 16). Qui chiaramente s’innesta la questione fondante del discorso. In un mondo colonizzato da «un’immaginazione del disastro spicciolo» (p. 18), la letteratura sceglie di muoversi in direzione di un’enfatizzazione dell’aspetto traumatico dell’esperienza contemporanea. Si tratta di scritture narrative che provano ad affermare una sorta di scandalosa normalità dell’estremo, in tutte le sue declinazioni (morale, affettivo, sessuale, storico). All’origine di queste sta una doppia impossibilità: da un lato l’impossibilità di reagire alla cosiddetta «inservibilità della realtà», ovvero di uscire da un immaginario colonizzato da cliché e stereotipi; dall’altra quella di raggiungere quello che è l’inarrivabile oggetto del desiderio (secondo un’interpretazione di stampo lacaniano), il Reale, luogo in cui risiede il trauma che si vorrebbe pronunciare.

A partire da qui Giglioli ordisce una ricca trama di esemplificazioni orientate lungo un duplice asse portante della narrativa contemporanea: da un lato la scrittura di genere, e in particolare i romanzi gialli, dall’altra quella «nebulosa dai contorni incerti» (p. 22), che è denominata autofinzione (o, alla francese, autofiction). L’analisi del ritorno del poliziesco noir e del romanzo storico viene liquidata abbastanza sbrigativamente dall’autore – che lascia trasparire, tocca dirlo, uno scarso interesse per la prospettiva critica del genere: si tratti di Bertante o di De Cataldo, di Wu Ming o di Carlotto, la nuova fioritura di questa narrativa è spiegata dal fatto che «l’estremo [ne] è uno strumento obbligatorio», che si orienta oggi alternativamente verso una quotidianità che più squallida non si può o verso un’immagine archetipica della modernità, quella paranoide del complotto universale in cui tutto torna. Maggiori spiegazioni avrebbe meritato la considerazione circa l’attingere a piene mani di questa scrittura da un corpus di immagini provenienti per lo più dalla galassia dell’audiovisivo, che tradirebbe una significativa perdita della «fede nel potere della scrittura di conferire… quel valore di epifania che stava alla base della migliore arte novecentesca» (p.40).

Com’è facile immaginare, è la galassia dell’autofinzione quella che dà a Giglioli l’occasione di fornire gli spunti più fertili – forse perché è proprio intorno a questo genere che si è sviluppato uno dei più interessanti sommovimenti nella storia recente del nostro romanzo. È innanzitutto la problematicità della categoria testuale, quell’oscillazione continua del soggetto scrivente tra esserci e non esserci, a mostrare una propria intrinseca propensione alla scrittura del trauma: un’ambiguità del trauma, che lascia il lettore a disagio, turbato da una martellante interrogazione sulla verità di quanto legge. A determinare il carattere perturbante di questa scrittura è ovviamente la ricerca inesausta della trasgressione, dell’estremo come frontiera di partenza per un’immaginazione che non trova più territori a cui attingere per descrivere una pretesa eccezionalità dell’esperienza umana. E tuttavia proprio su questa condizione esibita da chi parla avviene l’incontro e l’identificazione di chi ascolta, che nella compiaciuta retorica dell’autocommiserazione trova una corrispondenza al sempre più diffuso senso di una mancata presa su se stessi e sul mondo.

Se Gomorra, immancabile termine di confronto, rappresenta anche in negativo – per quello che si potrebbe definire un «ricatto dell’argomento» (che è però la morte, non certo la Camorra!) – il riferimento principale di questa formula discorsiva, verso altri e più «eccentrici» orizzonti Giglioli rivolge il proprio sguardo più interessato, provando a mettere in fila i nomi che potrebbero comporre un micro-canone del genere. Per quanto il percorso sia breve, il discorso critico è sufficientemente preciso da lasciar intuire quali sono gli interpreti deteriori della scrittura di autofinzione – si legga il finto e infantile stoicismo di Antonio Moresco o l’io debordante e a un tempo «evacuante» di Emanuele Trevi – e, al contrario, quali le scritture meritevoli di essere rilette e studiate. Il criterio di valutazione, s’intende, è quello dello scarto dalla norma di un genere molto facile a sclerotizzarsi, ma anche, e non è cosa da poco agli occhi molto esigenti del critico, la consapevolezza della necessaria parzialità della propria operazione «sostitutiva» (del Reale con la realtà), dell’ineludibile limitatezza degli orizzonti. Ecco allora spiccare le opere di due autori cui ancora dev’essere reso il giusto merito: da un lato il «quasiromanzo» di Babsi Jones (pseudonimo di un’autrice sconosciuta), Sappiano le mie parole di sangue, che, pur fondato su un’appropriazione indebita ma autogiustificata («l’identificazione con tragedie vissute per procura, pagate con il sangue altrui», pp. 70-71), riesce a tenere insolitamente distinte realtà e finzione; dall’altro la scrittura di Giuseppe Genna (Assalto a un tempo devastato e vile, Dies Irae e Italia de profundis), che «sembra indicare una traccia che ci permetta quanto meno di pensare a una via di fuga dal labirinto di specchi del trauma senza trauma» (p. 95).