Pubblichiamo oggi la seconda parte dell’intervento su Senza trauma di Daniele Giglioli, di cui qui si trova l’inizio.

Sul piedistallo, un gradino sopra tutti, sale però Aldo Nove, che si impone come fosse già un classico, non solo del genere, ma di tutta letteratura italiana dei nostri giorni.

Il suo Woobinda (1996) è chiamato in causa in quanto esempio di una fondamentale svolta postmoderna, data ormai per compiuta, della lingua letteraria italiana: «l’opzione dell’abbassamento sistematico… sembra aver perso quel valore di posizionamento assiologico che aveva nella modernità» (p. 90). La scelta dello scrittore di adottare uno stile «basso» per raccontare vicende atroci (celebre è ormai l’incipit: «Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal») è tuttavia una premessa fondamentale a quella che il critico ci svela essere l’operazione letteraria più riuscita nel panorama dell’autofiction italica. Quella di Nove è Letteratura, con la L maiuscola: con La vita oscena è riuscito dove tutti gli altri hanno fallito, perché ha reso oggetto dell’opera non la vicenda di un individuo, «ma la vita impersonale, il dolore senza nome, ciò che a rigore non potrebbe essere detto» (p. 93), il trauma di cui gli altri autori devono fare a meno. Un trauma che non dev’essere riassorbito perché se ne possa parlare, e che quindi ha bisogno di una lingua sempre «al di sotto di se stessa… per rincarare il suo inaggirabile difetto nel dar conto dell’esperienza vissuta» (p. 94). E, nel momento in cui il protagonista della storia si immerge nell’abisso della sofferenza, obbliga il lettore a seguirlo, «a dimenticare molte sue abitudini», senza pretendere di guarirlo, perché per chi legge, purtroppo o per fortuna, non c’è nulla da guarire. È questo il segreto della Letteratura ai tempi dell’autofiction.

Di luce riflessa risplende così anche la figura del nostro «critico sintomatico» (accogliamo e personalizziamo così l’espressione di Giglioli), che è riuscito a svelare l’inghippo di quell’opera all’apparenza tanto semplice ma in verità tanto contraddittoria che è La vita oscena: è lui infatti che si mostra in grado di riconoscere il rischio di fraintendimento laddove molti si concentrano sulla presenza di un vero trauma nell’esperienza biografica raccontata nel romanzo dal narratore; ed è sempre lui a svelarci – guarda un po’ – che le cose stanno proprio al contrario di come avremmo pensato:

«Perché mai come in questo libro in cui ha raccontato senza travestimenti comici o generalizzazioni sociologiche la propria tragica, dolorosissima esperienza personale, Nove ha puntato tutte le sue carte sulla letteratura. Sulla letteratura, ovvero su quella possibilità di mettere da un canto, fino a ridurlo a una funzione del linguaggio tra le altre, il proprio Io biografico» (p. 92).

È questo dopotutto che si chiede: dietro le ormai stantie invocazioni a una scrittura critica rinvigorita e realmente militante, capace di orientare i gusti e le opinioni sulle opere ma, surrettiziamente, sulla civiltà che abitiamo, c’è questa immagine, del critico che sa scavare più in profondità rispetto al comune lettore – e parliamo di lettore forte –, arrivando a mostrargli ciò che non aveva visto, quel che gli era sfuggito.

Tuttavia Daniele Giglioli, sulla cui acribia critica poco c’è bisogno di dire, lascia aleggiare su queste pagine (e si direbbe, consapevolmente) un’inquietante idea di scrittura critica, che combina l’impostazione analitica lacaniana con una sorta di sfiducia nella scrittura letteraria, o meno propriamente «creativa». Nella Postilla, la distinzione tra sintomo e feticcio, se vale a chiarire il senso entro cui vanno letti e «studiati» i testi letterari, smascherando la volontaria inconsapevolezza di chi vive e scrive («feticcio è ciò che ti permette di non sapere ciò che sai benissimo, p. 103), sembra accomunare l’uomo contemporaneo e lo scrittore in quanto colpevoli di questa auto-menzogna «che ci permette di tollerare l’insostenibile verità» (dice Zizek a p. 104). A stagliarsi sopra tutti, vero eroe della ragione, è allora proprio il critico, che di fronte al testo si mette i panni dello psicanalista per investigare in tutte le sue pieghe il racconto del proprio «paziente» lo scrittore: solo lui è in grado di mettere chiarezza in quella trama di autoinganni fintamente inconsapevoli che coprono il nucleo della nevrosi che è al fondo della scrittura. Così facendo  potrà indicare a chi legge come farlo e a chi ha scritto cosa sottintendeva effettivamente la propria opera. Il valore della critica sta nell’interpretare l’opera della letteratura come «sintomo» di un sentire proprio della civiltà a cui appartiene; questa concezione si salda a una significativa contrapposizione tra la sfera del fare, la poiesis e quella dell’agire, la praxis, unica in cui si possa ipotizzare un intervento efficace per reagire al presente: «La creazione artistica è parte della sfera della poiesis: può alludere al soggetto, desiderarlo, evocarlo, ma non assegnargli uno spazio che non sia in effigie, di finzione» (p. 108). Ne deriva evidentemente un’idea disillusa, sfiduciata, e quindi pericolosa, della letteratura come osservatorio della civiltà, territorio di ricerca e simulazione, campo in cui individuare segni piuttosto che elaborare soluzioni. Sembra affermarsi un carattere effimero del romanzo di fronte alle sfide poste dalla realtà concreta; il suo discorso primario, la sua forza rappresentativa sembrano perdersi dietro le ingenue pretese degli autori, che vengono così scavalcati dal critico, dal suo ragionamento, dalla sua dimostrazione, che rimane però di secondo grado, e quindi non autosufficiente. Giglioli ci illumina sulle condizioni del nostro presente letterario, e gliene siamo grati, sinceramente; ma, per capire, lui ha bisogno che qualcuno scriva letteratura: a questo qualcuno, che sia ingenuo o eccessivamente consapevole, noi continueremo a essere grati, un po’ di più.