Il noto, il nuovo, ultima raccolta poetica di Giovanna Frene (Transeuropa, 2011), è un libro inospitale. Quasi impervio; dal punto di vista tipografico, ancora prima che dal lato dello stile e del contenuto. Un’efficace foto a tutta pagina prosegue dalla copertina alla quarta: è probabilmente un muro, post-prodotto in modo raffinato, con mano da videoartista. Un lavoro dell’art director di Transeuropa, Florianne Pouillot, già schieratasi tempo fa contro l’omologazione grafica dell’editoria mainstream e le sue “copertine da riviste di moda”.

Il noto, il nuovo raccoglie solo venti componimenti, tutti accompagnati dalla traduzione inglese, collocata non a fronte ma sotto i testi, in corpo minore. L’effetto per l’occhio è un po’ caotico, e contribuisce al forte spaesamento provocato dal libro. La Frene non indulge in un facile sperimentalismo, ma costruisce una raccolta che si distingue innanzitutto per una forte ambizione concettuale (chiara fin dal sottotitolo: appunti postumi sulla natura del potere e della storia).

Il progetto è infatti quello di «un’opera di poesia della storia» (Note al testo, p. 28), che presenta però una spiccata vocazione filosofica, di genere “etico-trascendentale”. L’autrice si propone infatti di indagare la meccanica del male: quello “contingente” del totalitarismo nazista (o anche delle Twin Towers) e quello “antropologico”, trans-storico, costitutivo del potere umano:

esiste un solo motore immobile, che irradia livido
un’acqua di sillabe,
le nostre, in fila ‒

esiste solo un motivo per cui questa fila nasce e cresce ben ordinata,
dal Giordano alla Vistola ‒

scorre, il male,
propelle

(p. 9)

Il libro sembra seguire una curva logica di tipo deduttivo: inizialmente, nella poesia di apertura e nella sezione Il noto, il nuovo, il discorso poetico si mantiene su un piano fortemente astratto. Il male viene stigmatizzato come un meccanismo strutturante e inevitabile, capace di annullare la direzionalità della storia, e con essa ogni prospettiva di resistenza etica («una bocca perennemente spalancata che mangia il guasto domani», p. 10, o «né “progresso”, né “tensione”, né “regresso”,│o cose simili», p. 11). Successivamente l’autrice diminuisce il livello di generalità introducendo nel discorso spinte verso la contingenza. Il caso particolare è esaminato però in un ambiente che mantiene comunque un’intensa rarefazione concettuale. Questa specie di discontinuità logica crea un effetto molto caratteristico, che potremmo definire interferenza. Le sezioni Tre Movimenti per New York e Colpa e simulazione, assieme alla poesia che chiude il libro, propongono un gioco continuo di pieni e di vuoti, di viaggi dal particolare all’universale, nel contesto di una diffusa compenetrazione di riferimenti storici differenti. Giovanna Frene sfrutta la libertà d’azione offerta dal mezzo poetico: così ad esempio i Tre movimenti combinano lo smarrimento fisico e morale del post 11 settembre con una riflessione sul nazismo idealista, o Giovanni dalle Bande Nere si fonde con Von Clausewitz, Gilles Deleuze, Anna Politkovskaja, per affrontare in Colpa e simulazione il complesso problema della responsabilità storica del totalitarismo. I riferimenti non sarebbero comprensibili senza il ricco apparato di note posto a fine raccolta: in esso l’autrice rivela le fonti, propone delle autointerpretazioni e fornisce alcuni dati necessari alla comprensione dei testi.

Il montaggio è forse la risorsa stilistica centrale del libro: piccoli frammenti di fonti storiche, ma anche filosofiche o artistiche (in senso lato), sono accostati per seguire il filo di un ragionamento complesso, teso continuamente verso un’eziologia davvero lontana da ogni facile descrittivismo lirico-emotivo. L’assorbimento delle fonti in una dimensione astratta e generalizzante porta alla costruzione di mosaici di reimpiego, in cui le tessere compongono disegni spigolosi, appuntiti, quasi informali. Come nell’incipit del quarto movimento di Colpa e simulazione, Il principio “rimodellamento”, che combina una frase di Hannah Arendth (in corsivo) con riferimenti a Geoffrey Hill e a Fernand Braudel:

….decidere chi dovesse o chi non dovesse abitare questo pianeta, come decidere
in successione chi dovesse scegliere di rischiarare l’evento, o tutto
innocenza, o tutto apparato: l’occidente comune della morte non muta. tagliato
il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità.

(p. 22)

Gli inizi dei testi della Frene posseggono un certo fascino: sono in realtà non-incipit, quasi che ogni testo sia l’ennesima aggiunta a un discorso sempre aperto e a lungo rimuginato, una sorta di ossessione insieme storica e personale. L’estrema compenetrazione delle fonti e la spinta generalizzante permettono all’autrice di muovere una specie di critica all’immobilismo sociale (odierno?), fondato su premesse analoghe a quelle dei totalitarismi: l’abrasione (cioè l’alterazione della memoria), la simulazione, il buon senso («la virtù cardinale degli insensibili,│pulizia», p. 21), la colpa intesa come mediocre adeguamento all’orrore della storia. Attraverso una sintassi estremamente concentrata e sperimentale, Il noto, il nuovo propone uno stile filosofico che seduce e insieme smarrisce. Le inversioni, le iuncturae callidae (più figurali che sintattiche), una vena assertiva favorita dall’ellissi e dalla moltiplicazione dei riferimenti colti: il dettato chiuso e altamente ragionativo è funzionale alla dignità quasi tragica del tema, ma spesso cede alla tentazione di un radicale ‒ anche se non compiaciuto ‒ obscurisme. Il libro della Frene risulta notevole per la spinta tematica verso un’area generalmente esclusa dal recinto della lirica, ma rischia di sacrificare la leggibilità sull’altare dello stile.

Lo sperimentalismo quasi “avvenieristico” de Il noto, il nuovo finisce così per sminuire la innegabile statura teorica, inseguendo un progetto poetico ancora troppo innamorato della complessità.


Giovanna Frene, Il noto, il nuovo + CD Paura del buio dei Poems, Massa, Transeuropa, 2011, pp. 32, € 15.