di Valentina Savietto

Copertina verde e priva d’indicazioni bibliografiche, sovraccoperta essenziale, minimalista, sfondo bianco, un titolo, l’autore e casa editrice: Nanni Cagnone, Penombra della lingua, La Camera Verde – Roma anno 2012.

La nuova raccolta di Nanni Cagnone, ligure classe 1939 e ora residente a Bomarzo, piccolo centro laziale noto per il suo “Parco dei Mostri”, si presenta al lettore volutamente neutrale, a-tragica e antiromantica, come il tono asciutto, del resto, che caratterizza questa voce dell’essenziale. Il volume si compone di centouno liriche e fin dall’esordio è chiara la struttura circolare dell’opera, la cui organicità è assicurata dall’espediente formale per cui ogni poesia comincia con l’ultima parola del componimento precedente, il più delle volte con una ripresa letterale, talvolta con rilessicalizzazioni, oppure con varianti all’interno dei sintagmi che chiudono una lirica. Il modello conchiuso funziona secondo una strategia di unificazione anche tematica del ciclo e pochi esempi sfuggono ad un tale schema.

La raccolta apre la prospettiva su una scena notturna («Nel mostrar della notte | c’è tutto…», I, p. 7) e si conclude con un distico esortativo, rivolto, per la prima volta nell’intero volume, al cuore, che ora può, antiteticamente, dimenticare e ricordare («Férmati più lontano, | dimentica e ricorda.», CI, p. 107). Il poeta spazia nell’arco delle sue creazioni, sempre sprovviste di titolo, fra i temi più differenti; tuttavia, egli non si discosta mai da uno sguardo lucido, forte e saggio perché privo di patetismo, e sa fondere così, talvolta ironicamente, realtà quotidiane e dimensioni metafisiche, atemporali. Lirica stagionale, engagement sociale, valutazioni sulla Storia e il Tempo, ma anche acute osservazioni sulla vita del businessman o sull’oppressione antropologica della società del denaro si coagulano in poesie compatte, piuttosto brevi, in versi liberi ed irregolari, che non rinunciano comunque a far emergere classicismi metrici, quali strofe di quintine seguite da distici conclusivi. Frequenti stilemi sono il trattino lungo, usato come segno d’interpunzione, oltre ad abbinamenti di sostantivi, aggettivi o verbi, legati dal trattino corto, quasi a voler stimolare il lettore nell’esplorazione di ogni possibile legame sintattico-semantico fra le due entrate così accoppiate («muschio-congedo», I; «l’ospite-noi», XI; «sospiro-barlume», XXXV; «tenere-ma-spargere», LX; «spesa-sfarzo-di-luce», LXXXI; «radicati-errabondi», LXXXVII); infine, la presenza massiccia di anacoluti con la sparizione del predicato: il verso porta avanti un discorso, spesso arricchito ipotatticamente, ma la definizione di un messaggio, che proprio un verbo potrebbe creare, viene differita oltre il punto conclusivo e quindi oltre i confini spaziali della proposizione:

[…]
suggerimento ultimo
di sogni
che di notte in notte,
agitando superfici.

(IX, p. 15)

[…]
È questa
la fine del racconto,
l’arido poi, dopo che
l’incantevole giardino?

(XLVIII, p. 54)

[…]
Eredi senza merito,
da quel che vi lasciarono
nessun germoglio,
poi che interrotta la linfa.

(LXXXIX, p. 95)

Penombra della lingua coglie l’attenzione del lettore donando agli oggetti del quotidiano una valorizzazione originale, ma acutamente semplice nella sua essenzialità, che diventa qui pressoché magica e rituale. Fra gli esempi delle liriche a tema amoroso, svetta nell’intreccio di dedizione affettiva e salvaguardia del patrimonio boschivo il componimento XXVIII:

Vieni scorrere accanto,
mia diletta, e non esser mai
de la stirpe dei ricordi.
Conosci gli sposi della rugiada
e, nella silenziosa chimica
dei boschi, coloro che
concedono il mondo.
Non nominare la scure.

(XXVIII, p. 34)

La suspense creata dalla concezione ciclica della raccolta è parzialmente disattesa nella sua scorrevolezza da alcuni meccanismi di sapore ermetico che arrestano in pause meditative il godimento lirico. Un simbolismo stretto scorre fra i versi, soffermandosi fra allegorie e metafore oscure di varia natura: sono così presenti lemmi appartenenti al lessico faunistico, botanico, oppure, più sovente, inusitati sintagmi che spingono verso un’esegesi di difficile risoluzione.

[…]
brevi promesse del mandorlo
serti cagionevoli di rose
fragili accordi con la deriva.

(LXXXVII, p. 93)

[…]
dunque perduti ai secoli
ove accanto al bisonte
il cervo la capra il cavallo,
e docile parlare
al vento risorto nella valle.
Riaperto, il tempo – cani
selvatici per sempre.

(XCIII, p. 99)

Nel complesso, la penna di Cagnone stupisce per la squisita e cesellata fattura poetica: questa si giostra fra un’impostazione volutamente lontana da strumentalizzazioni pubblicitarie e operazioni di mercificazione letteraria, ed un accento a volte più acerbamente anti-accademico. Ciononostante, le pagine della raccolta restituiscono al panorama italiano contemporaneo un rappresentante “classico”, colto e a-pretenzioso nel quadro delle grandi risorse del nostro patrimonio linguistico e culturale:

[…]
Non crediate
l’opera d’un poeta
esaudita promessa
lieto fine – non è
che l’ultima rivalsa
d’una lingua,
la derisoria vacanza
di chi, perduto il lavoro,
con certezza del vuoto
riguarda vanamente
si torce le mani

(LXVIII, p. 74)

Il poeta lavora insomma “in penombra”, con distacco rispetto al materiale del referente, significato e significante, senza per questo trascurare le vicende più attuali ed innovative dei fenomeni artistici nel nostro Paese. A questo proposito si consiglia un’accattivante e avventurosa esplorazione dei link:

http://www.nannicagnone.eu/;

http://www.nannicagnone.eu/html/guests/index.html;

http://www.lacameraverde.com/.

N. Cagnone, Penombra della lingua, Roma, La Camera Verde, 2012, pp. 109, € 20.