di Luca Ghirimoldi

Splice  /splaɪs/ Verb (1) To unite, as two ropes, or parts of a rope, by a particular manner of interweaving the strands, — the union being between two ends, or between an end and the body of a rope. (2) To unite, as spars, timbers, rails, etc., by lapping the two ends together, or by applying a piece which laps upon the two ends, and then binding, or in any way making fast. (3) To unite in marriage. (4) (figuratively) To unite as if splicing.

(fonte: http://en.wiktionary.org/wiki/splice)

Gran brutto mestiere, quello di dare le definizioni. Mansione a prima vista più piacevole è quella di Clive ed Elsa, ingegneri genetici al soldo di una multinazionale farmaceutica, che esige da loro brevetti a volontà da immettere sul mercato. Appagati sul lavoro e nella vita di coppia, i due sono specialisti nella creazione (quasi novelli ed entusiasti demiurghi) di nuove specie ibride, mescolando all’uopo i patrimoni genetici di diverse famiglie animali. Unire, legare, stringere, creare; tutto bene, se non fosse che, quando si potrebbe addirittura scoperchiare il vaso di Pandora del DNA umano, i grandi capi bloccano loro i fondi. La necessità imperante non è di ordine morale ma gestional-amministrativo: urgono risultati concreti di fronte ai padroni del vapore, o la loro sezione – ironicamente chiamata N.E.R.D., e qui la definizione non occorre – verrà, in lessico aziendalistico, “riorganizzata”.

A questo punto, è il lato femminile della coppia a prendere le redini in mano: Elsa (Sarah Polley) convince Clive (Adrien Brody) a proseguire segretamente l’esperimento, e a far nascere nel caveau del laboratorio qualcosa di ben più inquietante e fascinoso: Dren. Che non solo è donna dotata di coda artigliata e branchie anfibie, ma rappresenta anche l’unione più ambigua tra esperimento genetico e scelte del cuore umano. Il suo nome è sì quello del laboratorio capovolto – come se fosse un’etichetta, una merce – eppure Elsa, figlia non amata e madre mancata, comincia a nutrire per la piccola Dren (Delphine Chanéac) sentimenti inediti; lei e Clive decidono quindi di trafugarla fuori dal laboratorio, facendola riparare in una fattoria isolata, lontana dagli occhi indagatori del mondo.

Qui, mentre le banali faccende di sintesi delle proteine alla N.E.R.D. vanno alquanto a rotoli, Dren cresce a vista d’occhio, come si dice di solito per i bimbi: impara a leggere e scrivere, fa dei bei disegni, vive il disagio adolescenziale in placidi quadretti di vita familiare. La sua identità “altra” si scopre più umana di quanto ci si aspettasse, ed è soprattutto Clive a meravigliarsene, e ad essere morbosamente attratto. È qui che questa pellicola di due anni orsono – firmata dall’italo-canadese Vincenzo Natali, che qualcuno ricorderà per The Cube (1997): un’altra situazione al limite… – si rivela capace di unire attraverso la metafora della biotecnologica (futuribile ma non troppo) molti significati eterogenei. Fotografato benissimo tra le luci del laboratorio e le ombre dell’incognito – merito di Tetsuo Nagata, due premi César in carriera – e forte di una realizzazione tecnica di spessore, Splice non vuole terrorizzare, quanto piuttosto sospendere il respiro dello spettatore tra i brividi di ragione e sentimento.

Dren, prima d’una nuova specie e come tale unica e sola sulla faccia della Terra, potenzia tutti i dubbi che l’hanno generata: principi dell’etica e diritti della ricerca scientifica, condizionamenti del libero arbitrio e libertà altrui, necessità delle scelte e responsabilità delle conseguenze. Quando poi tra lei, mamma e papà si inseriscono Edipo ed Elettra, il gioco della reversibilità dei contrari arriva ad un punto di rottura: tra code ungulate e sentimenti non meno affilati e ferini, tra Eden della creazione e gulag sordido della mercificazione scientifica, tra desiderio e realtà, i conti verranno fatti alla fine, sul corpo dei protagonisti.

Non c’è attacco frontale all’industria genetica, che pure nel finale del film è trionfante; piuttosto l’avvertimento che, ogniqualvolta si parli di uno splice, di un’unione ambigua tra le cose umane (e non umane), bisogna tener conto che sotto c’è sempre lo zampino della nostra volontà. Brutto mestiere quello delle definizioni.

Limit /′lɪmɪt/ (plural: limits) Noun (1) A restriction; a bound beyond which one may not go. (2) (mathematics) A value to which a sequence converges. (3) (mathematics) Any of several abstractions of this concept of limit. (4) (poker) Short for fixed limit. (5) The final, utmost, or furthest point.

Splice (Francia/Canada, 2010), 104 min., di Vincenzo Natali, con Adrien Brody, Sarah Polley, Delphine Chanéac, David Hewlett.