Era da un paio di settimane che sentivo parlare della nuova collana di IsbnI Vinili»), più o meno da quando sono stato vittima del seguente dialogo:

A: «Oggi ci sarà un incontro con Alice Beniero, quella che disegna le copertine[1]»

B: «Ma mica sono tutte bianche le copertine Isbn?»

A: Risata sommessa

In realtà è già un paio d’anni che Isbn si è aperta alla policromia, tant’è vero che la casa editrice milanese ha vinto l’anno scorso l’European Design Award, nella sezione «Book cover». Ora il rilancio: per la collana «I Vinili», la Beniero si cimenta in un esperimento che non a caso è stato definito innovativo. Lavorando infatti sui concetti di unicità e riproduzione, alterna elementi grafici e testuali direttamente sul foglio macchina (che ha dimensioni molto più grandi di una semplice copertina): in questo modo quando il foglio verrà tagliato per arrivare alla copertina finale, questa sarà di volta in volta diversa da tutte le altre.

L’altro minimo comun denominatore del progetto è il prezzo: romanzi di qualità, curati nella loro veste editoriale, compresi tra i sette e i nove euro. In un momento in cui l’editoria si assesta su numeri in profondo rosso (è di qualche giorno fa la notizia dei 400 milioni di mancati utili di Rcs), un piccolo editore che scommette su prezzi economici è sicuramente una notizia da salutare con piacere e interesse. Ma quali sono questi testi (in libreria da meno di un mese)?

Per ora, cinque pezzi forti del catalogo e un inedito di Douglas Coupland (Dio odia il Giappone – Romanzo d’amore e fine del mondo). Quando mi sono avvicinato all’espositore che riuniva tutti i volumetti, mi sono subito indirizzato verso l’inedito. Poi, però, rigirandomelo tra le mani in quel modo assurdo con cui crediamo di riuscire a capire la qualità di un romanzo soltanto attraverso il tatto (con buona pace degli ebook), l’ho rimesso al suo posto. L’occhio mi è caduto su un titolo di cui non avevo mai sentito parlare: La scuola dei disoccupati. Sottotitolo: Lavorare non è per tutti. Ora, non so se sia stata solo la coincidenza tra la tematica libresca e la nostra situazione economico-esistenziale a farmi scegliere quel libro. Ad ogni modo, quel giorno sono tornato a casa in compagnia di Joachim Zelter, classe 1962, tedesco.

Chiariamo subito un punto. Non stiamo parlando di un romanzo di alto valore letterario. Un buon testo, questo sì. Una trama che avvince e uno stile scorrevole e piano che porta il lettore fino all’ultima pagina senza staccare gli occhi dal foglio. Qualche scelta valida (su tutte quella di utilizzare la forma corale, in cui conta più la vox populi, rispetto ai singoli personaggi) e poco altro. Eppure, La scuola dei disoccupati si inserisce in una linea romanzesca prevalentemente anglosassone che rivitalizza la pesante eredità degli Orwell e i Bradbury. Condivide con questi autori il fatto di riuscire ad interpretare un’epoca – la nostra – in chiave fantapolitica, senza far dubitare mai il lettore che quello di cui si sta parlando non possa succedere realmente. Non per niente Zelter insegna Letteratura inglese, i modelli sono tutt’altro che impliciti. E, altro punto che inserisce il romanzo all’interno della migliore tradizione e non in quello dei semplici epigoni: pubblicato nel 2006, oggi alla fine dell’annus domini 2012 può essere letto con quella sottile angoscia che deriva dal sapere che le cose stanno effettivamente andando così.

La trama. Anno 2016, la Germania è investita dalla crisi economica, la disoccupazione si attesta su livelli record. L’Agenzia federale promuove la creazione di campus in cui gruppi di disoccupati vengono ospitati (anche se sarebbe meglio dire internati) per un intero trimestre. Sphericon si chiama il campo («una fabbrica dismessa in un decadente distretto industriale») e trainees vengono chiamati gli allievi. Uomini e donne tra i venticinque e i quarant’anni, che hanno perso ogni speranza di poter un giorno lavorare. Ex fioristi ed ex dottorandi. Inoccupati da sempre o soltanto da qualche anno, la sostanza non cambia. Sono persone improduttive e inutili per lo Stato, figure da ricostruire in primo luogo psicologicamente. Ma cosa insegnare in un mondo in cui il lavoro non c’è neppure per i più qualificati? Qui sta forse la miglior trovata del libro, quella che lo risolleva nonostante i personaggi deboli, nonostante il finale prevedibile: la materia principe è il «Training alla candidatura», seguita a ruota da «Elaborazione biografica», «Modellazione drammatica», «Consultazione internet». In pratica, gli istruttori insegnano agli allievi come creare il curriculum vitae perfetto. E, alla lunga, il cv in sé assume autonomia propria, non dipende più dalla effettiva biografia dell’allievo ma risponde soltanto a logiche di coerenza interna.

«I curricula sono forme di letteratura applicata. Come un romanzo o un dramma teatrale: esposizione, trama in crescendo, nodo di svolta, scioglimento finale dell’intreccio… Scioglimento finale dopo scioglimento finale. Un curriculum vitae non è nient’altro».

 La vita all’interno di Sphericon diventa giorno dopo giorno sempre più simile ad un talent show (a metà strada tra un «Grande fratello» e un «X Factor») in cui gli allievi si distanziano dalla loro vita reale ed entrano in un mondo in cui la candidatura assume valore in se stessa. Nessuno vi sceglierà per le vostre competenze specifiche – questo è il senso –, l’importante è vendere bene la propria persona, il proprio prodotto. E se, alla fine, il lavoro comunque non c’è, non fa nulla: tutta roba buona per l’autostima.

E Fest replica sempre più snervato: Non è questo il punto. I curricula sono progetti di vita, rappresentazioni di vita. Nessuno, di fronte a un quadro, si domanda se coincida o meno con la realtà. «Nessuno se lo domanda». I curricula sono fittizi. «Lo capite o no?!» Nient’altro che montature.

Insomma, Zeilter riesce a dar vita ad un mondo (distopico, è chiamato dall’editore) in cui le ossessioni della nostra epoca vengono assolutizzate e commiste insieme: il lavoro come fine in sé, non come mezzo di autoaffermazione; gli insegnanti che ridicolmente alternano la propria lingua madre e l’inglese; l’obbligo di apparire in un modo che niente ha a che fare con ciò che si è realmente; il ballare, divertirsi, scopare come sintomo di una persona realizzata e ben inserita nella società, pronta quindi per cercare lavoro. E soprattutto la paura della normalità, dell’effetto-massa simboleggiato qui dalla massa dei senza lavoro; la disoccupazione è vista come una colpa personale da estirpare, come una droga: «Un progetto di vita sbagliato, un’esistenza affrontata male» e Sphericon altro non è che una clinica per tossicodipendenti, dove estirpare questa colpa.

Un romanzo che ci fa riflettere sul nostro tempo: i paradigmi valutativi che abbiamo imparato a scuola e su cui si è sempre basata la vita dei nostri genitori sono ancora validi per noi? Che cos’è diventato il lavoro oggi, una scelta o un’ossessione («il lavoro nobilita l’uomo» si diceva un tempo…)? E se uno il lavoro non ce l’ha è forse un mezz’uomo? E allora, a Zeilter gli si può risparmiare qualche peccatuccio stilistico, qualche incongruenza dell’intreccio, qualche semplificazione eccessiva. Anche se non riesco a non domandarmi come sarebbe potuto essere questo romanzo, con una maggior cura per i particolari, con dei personaggi tratteggiati meglio, con una profondità psicologica che vada al di là della semplice trasfigurazione espressionista. Anche così, però, La scuola dei disoccupati riesce a regalarci estratti di questo tipo (e poco importa se, ancora una volta, si tratta di una semplificazione eccessiva):

 Durante l’intero corso dell’umanità, il lavoro è sempre stato dato a priori. Ha accompagnato, assediato, braccato gli uomini per millenni. Negli ultimi anni, tutto ciò è cambiato. Non è più il lavoro a inseguire gli uomini. Noi inseguiamo lui. Lo ricerchiamo. Con ogni mezzo. Così come si cerca una preziosa materia prima. Come i cacciatori cercano la preda. Il vero lavoro di oggi non è più il lavoro in sé, ma cercare lavoro. Un disoccupato non è un uomo senza lavoro. Al contrario. È un uomo con un lavoro impareggiabilmente difficile, quello di cercare lavoro. La forma più ambiziosa di lavoro. Forse addirittura la sua manifestazione più alta e completa.

Joachim Zelter, La scuola dei disoccupati, ISBN, Milano 2012, pp. 116,  €7


[1] Che poi, in realtà, non è lei la disegnatrice. Si tratta dell’art director, la responsabile del progetto grafico. Almeno per quanto riguarda i libri in questione. Per la cronaca il dialogo si è svolto in Santeria.