Minimum fax pubblica una nuova edizione (con nuova traduzione di Martina Testa) di La ragazza con la gonna in fiamme, raccolta di racconti di Aimee Bender, che La Balena Bianca ha conosciuto quest’estate in occasione del Festivaletteratura di Mantova. La raccolta, uscita negli Stati Uniti nel 1998, era già stata pubblicata nel 2002 da Einaudi: in quell’occasione Paola Novarese aveva scelto di tradurre il titolo The Girl in the Flammable Skirt con Grida il mio nome (?!).

Al lettore sprovveduto, che in questi dieci anni non ha avuto occasione di incrociare la scrittura della Bender, della quale minimum fax si è preoccupata di proporre tutta la produzione (i due romanzi, Un segno invisibile e mio, 2002, e L’inconfondibile tristezza della torta al limone, 2011, e la raccolta di racconti Creature ostinate, 2006), questo libro potrebbe apparire come l’ennesima proposta di scrittrice americana erede di una tradizione che ha nel racconto iper-realista, ironico e spiazzante la sua elettiva forma d’espressione. E in questo senso, la bandella non sembra certo arrivare in aiuto, definendo la Bender «figlia del postmoderno di Calvino e del minimalismo di Carver»: ovvero la fase meno convincente del principale scrittore del nostro secondo Novecento e l’autore più di tendenza dell’America degli ultimi vent’anni, zio di ormai fin troppi «nipotini» (tra i quali sembra sia finito pure il caro Luciano Ligabue).

E invece, non appena si entra nella lettura, ci si accorge che tante precauzioni ideologiche, seppur giustificate dalla confezione del libro, devono essere immediatamente dismesse. Sicuramente i due nomi proposti a termine di paragone, Calvino e Carver, non sono scelti a caso e anzi trovano una loro effettiva adeguatezza. Quello che forse sfugge alla rigida e strillata definizione paratestuale è la reazione che questa doppia ispirazione produce sulla scrittura di Aimee Bender.

Ma procediamo con ordine. La ragazza con la gonna in fiamme è il titolo dell’ultimo (e tra i meno convincenti) dei 16 racconti della raccolta a cui dà il nome. Divise in tre parti (senza apparenti ragioni strutturali), queste narrazioni di lunghezza variabile (dalle 4 alle 18 pagine) propongono l’immagine di un microcosmo fatto di personaggi eccentrici, spesso al di là di qualsiasi verisimiglianza: troneggiano ragazze con mani di fuoco o di ghiaccio, donne che partoriscono la propria madre, folletti e sirene, ma anche, più “normalmente”, belle ragazze convinte di essere sessualmente irresistibili (e si noterà come la quasi totalità delle protagoniste siano donne). Le situazioni in cui li troviamo impegnati sono le più disparate: c’è una bibliotecaria che, il giorno della morte del padre, decide di sfogare il suo dolore facendo sesso con tutti i clienti maschi della biblioteca; c’è un uomo che torna dalla guerra senza bocca e sua moglie, attribuendo la sciagura alla scarsa attenzione dell’uomo, pensa di tradirlo con un giovane commesso dalle labbra rosse e carnose. I tratti di queste storie spesso sono solo accennati, di rado compiutamente articolati: ne rimane un’impressione di forte straniamento, a volte divertito, più spesso malinconico, amaro.

La Bender, come aveva rivelato nell’incontro mantovano, ha un’alta considerazione della forma racconto, perché consente a chi scrive di concentrare l’attenzione sul movimento delle azioni, senza indulgere in descrizioni e affreschi che disperdono la carica della narrazione. Una riproduzione in scala minore (leggi “allegorica”) del mondo: poche calibrate pennellate per tratteggiare una trama universale. Ed è questo che stupisce il lettore: la capacità di queste narrazioni irrealistiche e a un tempo iper-realistiche, che sfondano senza alcuna remora la barriera della credibilità, di entrare in contatto diretto con l’esperienza intima dell’essere umano. Nel gesto risolutivo con cui la protagonista del primo racconto lascia fuggire nel mare il proprio fidanzato trasformatosi in salamandra riconosciamo la commovente forza d’animo con cui l’amante si procura un dolore per risparmiarne uno al proprio amato e uno più grande per sé in futuro.

Più che il Calvino postmoderno, autore di lambiccati giochi combinatori e metatestuali, queste storie fanno venire in mente il Calvino studioso delle Fiabe italiane (quelle che tornano tanto di moda oggi). Della struttura fiabesca si ripropongono in questi racconti non solo l’icasticità della rappresentazione, ma anche l’estemporaneità di alcune azioni, l’impulsività anche infantile dei comportamenti, l’inserimento del racconto entro una logica dei fatti “a-normale” ma perfettamente coerente e accettata. Come nelle fiabe, o nei miti, i personaggi spesso non hanno nomi, e sono identificati da alcuni caratteri distintivi (e quanto ci ricorda questo anche il Calvino degli Amori difficili, con le sue avventure di un miope, di una moglie, di un soldato o di un bandito?): a contrassegnare l’identità dei personaggi sono spesso particolari del corpo, che diventa oggetto di deformazioni, trasformazioni o rimozioni. Così, alla disinibita ragazza dal corpo (presunto) magnetico, si affiancano l’uomo che parla a voce alta e l’uomo che borbotta, un orfano che ha il dono di ritrovare le cose, un uomo dalla gobba finta ma ugualmente ereditaria per la propria figlia adottiva (…), il padre che un giorno si sveglia con un buco nella pancia.

Il corpo (altro rovello calviniano) torna a essere metro di conoscenza e strumento di esperienza, carne in cui s’inscrivono passioni e dolori della vicenda esistenziale delle persone, terminale che sigilla una vicenda radicata nel reale e lontana da qualsiasi astrazione divertita e concettosa (leggi “il postmoderno”). Il fisico come luogo di reazioni e trasformazioni, tramite primario delle relazioni tra gli individui. È per questa via che si compie un imprevisto superamento del postmoderno. E lo conferma un altro elemento che segna uno scarto radicale dei testi di questa raccolta rispetto alla tradizione del racconto americano. L’ambientazione di queste short stories è apparentemente americana, come ci si può prevedibilmente aspettare, ma i contrassegni geografici e spaziali sono radi e spesso insignificanti. Si cita Washington, un viaggio a Thaiti, una qualunque Market Street e poco altro. Lo sfondo è chiaramente quello dell’odierna società statunitense, fatta di campus universitari, metropolitane e mariti che ritornano dalla guerra, eppure c’è qualcosa che sembra sfuggire allo schema. Si avverte una tensione a ricostruire un modello che assomiglia più alla comunità primitiva, da studio etnoantropologico, che alla moderna società occidentale.

La guaritrice, racconto che apre la terza sezione, esemplifica al massimo grado questa caratteristica: le storie parallele della ragazza con la mano fatta di ghiaccio e della ragazza con la mano fatta di fuoco hanno luogo in una città che coincide strettamente con la comunità degli abitanti. Una corona di colline impedisce la comunicazione con l’esterno; un solo ragazzo è riuscito a uscire e manda cartoline da «fuori» facendo scoprire ai concittadini come è fatto il mondo. Come una comunità primitiva gli abitanti della città incarcerano prima ed emarginano poi la ragazza del fuoco, portatrice di sofferenza, e al contrario celebrano la ragazza del ghiaccio, guaritrice di ogni male, che si sentirà alla fine costretta ad andarsene. Sembra che le azioni siano iscritte in un codice primitivo, fatto di rituali, di pratiche magiche, per cui il diverso diventa capro espiatorio e incarnazione del demoniaco. C’è qualcosa che sembra risalire alla notte dei tempi, alle origini della specie umana, quando altre erano le convenzioni che regolavano la convivenza, altre e più sfrenate le manifestazioni di vitalità e aggressività dell’uomo (E in maniera particolare il sesso si rivela come lo strumento privilegiato di una contrattazione primordiale). Ed è coerente con questa rappresentazione il fatto che i personaggi agiscano guidati da un istinto che è più vicino alla curiosità innocente e ai timori irrazionali dell’uomo primitivo che alle rimozioni di un soggetto ormai addomesticato dalle regole dell’umanità civilizzata.

A determinare l’effetto spiazzante e in definitiva affascinante di questi racconti è allora proprio il cortocircuito che si crea tra questo ritorno alle origini primitive e l’apparente riconoscibilità di contesti contemporanei, tra l’irruzione dell’irreale e dell’irrazionale nelle vicende dei personaggi e la perfetta rispondenza che le loro esperienze hanno con la nostra emotività (più o meno lucida).

Da questo punto di vista, assume un altro senso la sospensione su cui si chiudono tutte queste storie; non c’è mai uno scioglimento, come nei racconti di Carver si rimane sorpresi dall’improvvisa conclusione, che ci lascia a bocca aperta o con un sorriso immotivato. E allora, per ritornare sulla polemica iniziale, se i racconti di Carver ci spiazzano mostrandoci quanto una realtà quotidiana e riconoscibile possa rivelarsi strana ed estranea, azzerando le coordinate con cui decidere il senso da dare a quanto letto, nei racconti della Ragazza con la gonna in fiamme quella sospensione viene confermata, ma al tempo stesso circoscritta da una nuova consapevolezza. Che servirà recuperare un’esperienza più diretta, istintiva, “fisica” del mondo: è per il nostro corpo, per la consapevole percezione che riusciremo ad averne che passano le nostre sorti. L’effetto è a tutta prima ancora più straniante. La realtà si è ulteriormente divaricata dalla nostra esperienza. Eppure in quel corpo, deforme, bruciato, magnetico, ghiacciato, scomparso noi riusciamo a riconoscerci, a comprendere, ad accettare la sfida di una realtà che cambia sotto i nostri occhi, ma nei confronti della quale ci ritroviamo tra le mani un’inaspettata arma di resistenza.

Aimee Bender, La ragazza con la gonna in fiamme, minimum fax, Roma 2012, p. 176, 14€