È appena passata la notte degli Oscar e Les Misérables, film (già musical di Broadway) diretto da Tom Hooper, regista de Il discorso del re, si è portato a casa le sue brave statuine. E ben meritate. Io ero andata a vederlo al cinema qualche settimana prima, partendo più che prevenuta dato che il romanzo di Victor Hugo è il sovrano incontrastato della mia libreria da quasi una decina d’anni. Invece si sono rivelate, a dispetto del mio pregiudizio, due ore e mezza effettivamente piacevoli, persino commoventi (anzi, diciamolo, mi si è proprio sciolto il mascara). Bravissimi interpreti e musiche davvero coinvolgenti. Tuttavia ho notato una sorta di incongruenza di fondo, non tanto per quanto riguarda la trama (perché non si possono condensare oltre mille e seicento pagine senza molte lacune), quanto per la sua gestione. Insomma, che il messaggio risultasse depotenziato, svilito, rispetto all’opera originale. Ma andiamo con ordine.

C’è un capitolo formidabile, nella quinta parte dei Miserabili, che descrive la fine delle insurrezioni del 5 giugno 1832 con la definitiva resa dell’ultima barricata.

Dopo la serrata narrazione degli scontri che aveva occupato le pagine precedenti, i soldati entrano nell’osteria – centro operativo dei rivoltosi, dove ormai resiste un solo uomo: Enjolras, il giovane leader della barricata. È un momento solenne, Hugo si sofferma su ogni dettaglio dandogli tutta l’importanza che merita. Enjolras resta immobile – bellissimo e altero – davanti ai suoi assalitori, che decidono di fucilarlo sul posto. In quel momento si sveglia Grantaire, già caratterizzato come un donnaiolo e un avvinazzato, che ha dormito riverso su un tavolo, ubriaco marcio, per tutto il tempo degli scontri. Come apre gli occhi svanisce l’ubriacatura e si affianca al compagno facendosi uccidere insieme a lui.

La gestione che viene fatta di questo episodio è esemplificativa della sostanziale differenza tra romanzo e film (e, ça va sans dire, musical). Infatti la prosa di Hugo si apre, segue gli eventi fin nei minimi dettagli, ne regala un’immagine quasi al rallentatore, soffermandosi sull’espressione dei visi come sui bottoni di un polsino. Il capitolo è maestoso, imponente, in perfetta armonia con il romanzo che lo contiene. Ci troviamo di fronte al destino dei singoli personaggi e di fronte alla Storia, quella con la S maiuscola che ci hanno fatto studiare a scuola.

Tutto ciò, nel film, semplicemente non traspare. La scena è compulsiva, veloce: i soldati entrano nell’osteria, fanno fuoco su Enjolras e, proprio mentre esplodono le deflagrazioni, un altro rivoltoso, intravisto già di sfuggita in qualche scena collettiva, si getta in mezzo al parapiglia. Non sappiamo nulla di Grantaire, non è stata fatta nessuna introduzione del personaggio, apprendiamo che un compagno di Enjolras ha un disperato slancio suicida.

E sta qui la spaccatura tra romanzo e film: laddove uno si volge all’universale, tramite un’attenzione ai limiti dell’ossessivo verso i singoli particolari, l’altro finisce per fermarsi al particolare, buttando tutto in una generalissima cagnara.

Insomma, il lavoro di Hooper, pur restando fedele alla trama e presentando mastodontiche (a tratti eccessive) scenografie, è “piccolo”, concentrato solo sulle vicende dei personaggi che si fanno di volta in volta portavoce dei propri drammi personali, a cui restano legati e arroccati. Sono protagonisti statici, presenze monolitiche, come una Rossella O’Hara sempre, bene o male, uguale a se stessa. E d’altronde uno dei motivi portanti (oltre a, quello sì imponente e collettivo, Do you hear the people sing?) è il reiterato Who am I cantanto da Jean Valjean/Hugh Jackman.

Victor Hugo fa procedere la sua opera in modo affatto contrario: gli attori della vicenda si dileguano, si dissolvono, sono dei passanti, indagati nelle loro corde più intime (come il vescovo di Digne, emblematica presenza con cui si apre il racconto per le prime cinquanta pagine) restano in scena solo quanto è opportuno per l’economia della vicenda: sono figure della Provvidenza, attori della Storia, pronti a lasciare il passo quando il loro ruolo è finito. Lo stesso Valjean, il personaggio che più si avvicina al classico protagonista, nell’ultimo capitolo muore con una morte che è un passaggio: lascia il testimone – e la figlia – al giovane Marius, salvato dalle barricate. La stessa scritta sulla sua lapide recita: La cosa semplicemente arrivò da sola, come si fa notte quando il giorno si allontana.

Un altro aspetto decisamente negativo del film/musical è ancora legato alla gestione dei personaggi e al loro sviluppo: benché tutta la trama sia supportata unicamente dalle storie dei singoli, queste però non vengono raccontate a fondo. Si possono citare moltissimi esempi, dalla natura ambigua ed incestuosa del sentimento che Jean Valjean nutre per Cosette, superato attraverso l’atto finale di totale sacrificio, che nel film viene completamente ignorato, alla vicenda familiare di Marius, cresciuto da un nonno sostenitore dell’ancien régime che con la riscoperta del padre, ex-corazziere di Napoleone, scopre anche i propri sentimenti rivoluzionari.

Victor Hugo ci ha lasciato un’opera di ampio respiro, che inserisce i suoi personaggi in una dimensione storica e provvidenziale di cui sono solo mere comparse. Certo, c’è il caso che domina azioni e avvenimenti umani, ma sempre all’interno di un orizzonte prettamente provvidenzialistico, come la pioggia fuori stagione causa principale della sconfitta dell’esercito napoleonico a Waterloo. In ogni pagina questo dominio incontrastato del divino si svela non dall’alto, ma dal basso: dal povero, dal miserabile, dallo sventurato. Jean Valjean mostra tutta la sua grandezza d’animo trascinando Marius ferito attraverso le fogne, e di fronte a ciò l’ispettore Javert, che lo ha inseguito per quasi trent’anni confidando in un ordine e in una legge che fanno capo a Dio, non accettando il peso della sconfitta morale si affoga nella Senna.

Nella versione cinematografica questo messaggio appare indebolito da una messinscena holliwoodiana che si fregia di un Valjean/Jackman più simile a un supereroe della Marvel che a un virtuoso uomo comune, mentre solleva sulle sue spalle il ragazzo svenuto. E la stessa morte di Javert/Russell Crowe perde di significato tra i flutti di una Senna incredibilmente fumettistica, che cattura l’attenzione dello spettatore distogliendolo dall’atto in sé.

In questo senso trovo che l’ammiccamento al cartone, alle atmosfere grottesche e burtoniane sia una pecca fondamentale. Soprattutto dal momento che lo stesso film ne risente finendo per risultare spaccato in due. La sezione iniziale, eccessiva e fasulla, dalle scenografie al limite della credibilità, è quella che riguarda la redenzione di Valjean all’uscita del bagno penale, la storia di Fantine, costretta a prostituirsi per mantenere la figlia, la piccola Cosette, affidata a due locandieri truffatori (e la locandiera, sempre a proposito di Tim Burton, è interpretata da Helena Bonham Carter).

La seconda metà della pellicola, dove vediamo l’insurrezione del 5 giugno sconvolgere Parigi dopo i funerali del generale Lamarque, cambia invece registro. Le scene diventano più realistiche, i personaggi sembrano più veri nelle loro disgrazie e nella loro passione. Forse, di fronte alle barricate e alla lieve storia d’amore tra Cosette e Marius, il realismo è stato una necessità più che una scelta, fatto sta che, se la parte iniziale risulta a tratti pesante e noiosa da seguire (senza mettere in dubbio la bravura degli attori e di Anne Hathaway, pazzesca sia nella voce che nell’interpretazione), l’altra vola via in un baleno. Le scene sono coinvolgenti ed emozionanti, la morte di Gavroche spezza il cuore anche al più annoiato degli spettatori, il livello insomma è differente, quasi si trattasse di due film diversi.

A questo proposito, è abbastanza disturbante la presenza intorno alle barricate dei locandieri, che con quel trucco pesante e le espressioni teatrali contrastano decisamente con il resto. Così come lo è la sensazione che durante tutto il film Jean Valjean e Javert non invecchino mai. Dall’inizio alla fine della vicenda, infatti, passano all’incirca diciassette anni e Victor Hugo stesso, nel primo libro, ci indica Valjean come un uomo sui quarantacinque anni che, per quanto atletico e prestante, dovrebbe quindi finire per superare i sessanta. Eppure, sebbene Cosette cresca e il tempo faccia il suo corso, fuggiasco e poliziotto sembrano non invecchiare di un giorno. Notiamo solo qualche capello grigio in più per Russel Crowe, mentre Hugh Jackman ha un improvviso decadimento nella scena finale, quando si è ormai ritirato nel convento. Mi sono chiesta il perché di questa scelta e ho ipotizzato un tentativo, da parte di Hooper, di sottolineare l’eterna e immutabile contesa tra i due. Ma, se così fosse, risulterebbe comunque un po’ forzato.

Per concludere, è indubbio che in una trasposizione teatrale o cinematografica di un’opera mastodontica come I Miserabili si debbano fare per forza di cose delle scelte, sia di trama che di contenuti (e in un film le mancanze appaiono sempre con maggiore forza, rispetto a quanto può accadere su un palcoscenico, dove i mezzi sono limitati e l’immaginazione del pubblico fa il resto), ma trovo che con i mezzi di una produzione Universal si sarebbero potute colmare, almeno a livello di scenografia e contenuti, quelle lacune che su un palco di Broadway suscitano certamente meno perplessità.

Indubbiamente si tratta di una produzione meritevole e imponente, di uno spettacolo piacevole con degli ottimi interpreti: in particolare Anne Hathaway, Russel Crowe e Daniel Huttlestone (Gavroche) lasciano senza fiato.

Certo è, però, che quando si parla dei Miserabili si parla di un’altra cosa.