Avevo già sentito parlare diverse volte di Cristiano Cavina e ne ero sempre rimasto incuriosito. Anni fa avevo anche avuto l’occasione di sentirlo leggere allo Slam X (organizzato da Agenzia X) ed ero rimasto colpito dalla potenza di quella combinazione di ricordi, semplicità, ironia e capacità quasi ancestrale di narrare.
Alla fine ce l’ho fatta, anche se ci ho messo diversi anni, a leggere un suo libro e posso dire subito che non mi ha deluso per niente. Ho deciso di iniziare da Nel paese di Tolintesàc, secondo libro della produzione dell’autore ma che potremmo definire l’inizio cronologico della serie più autobiografica, avendo infatti moltissimi paralleli con l’infanzia dell’autore; serie che poi avrà poi seguito con Alla grande e con Un ultima stagione da esordienti (esordienti la categoria calcistica che spero di non essere il solo a ricordare) in cui racconta l’epoca dei 13 anni, delle medie, della preadolescenza.
Questa produzione raggiunge il culmine, e il termine, con I frutti dimenticati dove l’autore racconta l’età adulta passando anche a citare i nomi reali, fatti reali e quindi compiendo da molti punti di vista un passo in avanti molto interessante. Tutti questi testi sono ambientati, in maniera più o meno dichiarata, nel paese natale di Cristiano Cavina: Casola Valsenio, piccolo agglomerato dell’Appennino faentino.
Ho sempre pensato che sia più facile parlare della vita se si parla di cose che si conoscono direttamente, che la letteratura si nutra di fatti, di quotidiano e che solo tramite essi possa raccontare chi siamo. Quindi le tematiche impiegate da Cavina non potevano non attirare il mio interesse. Sono inoltre un terribile curioso, soprattutto per quel che riguarda le storie delle persone e potrei dire che è uno dei motivi che mi spinge a leggere sempre nuovi libri la possibilità di conoscere più storie possibile. In questo caso le emozioni che traspaiono dalla pagina scritta vibrano di vissuto grazie a uno stile ironico e preciso che cade nel rimpianto soltanto nel caso del periodo epico degli avi, in cui comunque non risulta comunque mai stucchevole, evitando sempre l’effetto strapaese.
Lo stile ha una grande parte in questo testo, Cavina scrive infatti in modo essenziale e funzionale ma ben tornito. La sua scrittura ci accompagna e ci ammalia come un racconto accanto al fuoco e come un racconto a bordo fuoco è facilissimo immedesimarsi pienamente con l’io narrante. Da sottolineare è proprio questa capacità, quasi atavica, di raccontare storie che non ha niente da invidiare a Nonna Cristina (vero sciamano della narrazione) ma che si vede nutrita da moltissime letture e riflessioni (basti pensare alla citazione iniziale di Benjamin, ma anche come bene fa osservare Belpoliti: Cavina discende anche da Giovannino Guareschi – c’è dentro un po’ di Don Camillo e Peppone – e da Salman Rushdie, da I figli della mezzanotte).
In questo paese si respira l’aria di un altro tempo, un tempo in gran parte precedente a quello vissuto dal bambino protagonista. Le vicende sono narrate da nonna Cristina che, nelle lunghe giornate passate assieme, gli racconta le vicende di tutta la famiglia. Così il narratore sentì la storia della propria famiglia (ma non è di certo un narratore infantile quello che ce le riracconta, possiamo immaginare a distanza di anni) e così può narrarci queste vicende utilizzando le parole stesse della grande narratrice rendendoci anche le reazioni e lo stupore del bambino. Veniamo catapultati in un mondo diverso, dalle vicende di Nicolino, padre di Cristina, alle vicende della sorella Fosca, la gioventù di Cristina e il suo incontro con Gustì (nonno del narratore), le figlie dei due tra cui la madre, il figlio scavezzacollo Varo (lo zio Paolo di Alla grande), ma anche Bianchi il Zoppo, i 150 indistruttibili centimetri di zio Tarzan, i diabolici fratelli ballerini Mezzanotte e Undici e tre quarti, Medardo il matto, il forzuto Palirò, talmente comunista da essere nato con una voglia a forma di stella sulla spalla sinistra. E così seguiamo lo snodarsi dei personaggi attraverso le vicende della storia, vediamo susseguirsi le generazioni e cambiare la cultura e la società pur mantenendo un fondo comune.
Particolarmente ironica e vitale è la descrizione di come erano vissute la fede e la politica, quali erano le tensioni e come si fondessero con la vita quotidiana. Il saragattiano Gustì (che venderà il proprio voto ai comunisti a fronte di una stalla ma anche a patto che i figli di Palirò si taglino i capelli lunghi), nonna Cristina inguaribile monarchica, Palirò comunista, Zio Tarzan comunista e partigiano ma in rotta con il partito. E la fortissima fede di nonna Cristina che organizza rosari e preghiere, ma poi dice anche apertamente, con rapporto famigliare, “troppe me ne ha combinate” rivolta a Dio.
La cultura di questa società non si esprime soltanto attraverso le gesta eroiche dei suoi personaggi epici (di cui Gustì, che non viene mai chiamato nonno, è degno rappresentante), ma anche con la visione della vita di nonna Cristina, e in particolare il suo adagio “tutti perdono qualcosa”, vero perno del testo.
Da sottolineare è come l’effetto “strapaese” viene evitato a tal punto, insieme alla caduta nel provincialismo, che non capiamo con certezza dove siamo. O meglio, leggendo questo testo ogni persona può riconoscere tratti del suo luogo di origine, personaggi epici della sua infanzia e della sua vita, a parte qualche sporadica parola dialettale. Ciò agevola la possibilità di immedesimazione, che come ho già detto è molto intensa.
Per quel che riguarda il titolo si tratta di un prestito da un’espressione di Fellini: Tolintesàc, che significa letteralmente “messo nel sacco” ed è termine che vale per combinato, fatto, fregato, preso, riuscito ma che può assumere anche altri significati. Il titolo spande la sua impronta su tutto il paese che assume un aroma particolare, provinciale amarcord ma anche vivo e reale. Questa gustosa espressione dialettale dipinge bene lo spirito dell’opera, l’idea di un racconto epico-mitologico ambientato in un paese dai riti e dalla cultura tutti propri, in cui ogni personaggio è particolare e a suo modo eroico. E questa rappresentazione delle vicende del paese, potremmo dire sia su scala ridotta che su scala maggiorata, finisce per coinvolgere tutti i fatti della vita, tutti momenti dell’umanità. Da un lato particolare dell’insieme mondo, dall’altro spaccato che contiene tutto ciò che c’è al mondo, un paese particolare che diviene il paese di tutti, un distillato della vita.
Credo continuerò a leggere e a consigliare tutta l’opera di Cavina (edita da Marcos y Marcos), le sue doti di scrittore e di narratore mi hanno davvero impressionato. Forse avrei preferito farmele raccontare di persona tutte queste storie, magari seduti a un tavolino di bar, ma scritte acquisiscono inequivocabilmente la funzione di trarre in salvo una verità che rischiamo di lasciarci dietro senza accorgercene, una perdita che sarebbe irrimediabile: le nostre radici.
Cristiano Cavina, Nel paese di Tolintesàc, Marcos y Marcos, 14.50 €