di Fabio Disingrini
Qualcosa è cambiato: la primavera araba del Nord Africa, con un infettivo domino dalla rivoluzione dei gelsomini alla fuga di Ben Ali, da piazza Tahrir alla caduta di Muammar Gheddafi, ha preparato la sua svolta epocale. Qualcosa potrebbe cambiare: prima la decolonizzazione mentale, per certi aspetti ancora in embrione, del continente subsahariano, poi il sogno politico: Africa Must United. Era il manifesto programmatico del socialismo panafricano di Kwame Nkrumah ed è la dinamo di Se tutta l’Africa, l’ultima raccolta Feltrinelli dedicata a Kapuściński: un libro di avventure, ma di avventure politiche, nella svolta fra due epoche, la fine del colonialismo e l’inizio dell’indipendenza.
Per quasi vent’anni, tra il 1962 e il 1981, Ryszard Kapuściński ha lavorato come corrispondente estero dell’agenzia di stampa polacca Pap e per il quotidiano «Polityca». Altre raccolte come La prima guerra del football o Cristo con il fucile in spalla avevano testimoniato il coraggio esemplare di Kapuściński, un moderno Senofonte in prima linea per raccontare le guerre dei paesi più vessati; Se tutta l’Africa è invece un modello interpretativo di geopolitica, un volume di corrispondenze scritte fino al 1966 con la cognizione critica di chi, “alla Tucidide”, è diventato un maestro del reportage.
Se tutta l’Africa spiega e racconta i programmi futuribili del presidente Neyrere per la nascita di un nuovo Tanganica, le vittorie mutilate del movimento di liberazione rhodesiano e del mau mau War Council per l’indipendenza del Kenia, lo «spirito della Bastiglia» di Khartoum e la guerra del Sudan – il paese lacerato tra i due mondi africani della grande famiglia araba e del continente nero – che ha scavato «una fossa capace di diventare la tomba dell’unità africana» (p. 97). Kapuściński è l’interprete di tutte le endemiche contraddizioni e le idiosincrasie che negli anni non hanno permesso la realizzazione del Panafricanisme di Nkrumah e delle lezioni sociali di Patrice Lumumba: dall’istruzione alla sua assenza, ovvero la piaga dell’analfabetismo («Molti africani istruiti si rifiutano di aiutare il progresso culturale del loro popolo, rinnegano il modo di vivere africano e si trasformano in europei neri», p. 17), dai fanatismi tribali – laddove la città è sempre stata la base sociale della rivoluzione africana – alle regole antinomiche degli stessi clan che nel diciottesimo secolo combatterono l’invasione imperialistica e oggi invece, sconfitto il colonialismo, svolgono sul continente un ruolo reazionario e filooccidentale.
Così emblematica nel libro è la lunga testimonianza dell’Africa intorno alla tavola rotonda (ieri i governi degli imperi coloniali per spartirsi il continente, oggi gli stati generali dell’Africa liberata per la loro unione) nel resoconto della prima conferenza al vertice del continente: i dibattiti del maggio 1963 all’Africa Hall di Addis Abeba. Si avvicendarono i grandi depositari della rivoluzione anticolonialista (Nkrumah, Ben Bella, Kasavubu, Balewa) e tutti i presidenti delle nuove e spesso friabili democrazie, fondatori dell’Organizzazione dell’Unità Africana, ma le prime ingerenze dei “petit Charles” designati dalla Francia sulla firma della Carta dell’Africa rilevarono fin da subito lo spettro non meno terrificante del neocolonialismo economico («La Francia ha scelto come capi delle sue client-countries africane dei politici non solo leali nei confronti di Parigi, ma anche umanamente insignificanti e incapaci di un’opinione personale», p. 39). L’Europa attinge così redditi dallo sfruttamento dell’Africa e continua intanto a esserne il principale finanziatore: «L’incompletezza della rivoluzione africana sta nel fatto di non aver interrotto il circolo vizioso Africa-Occidente-Africa» (p. 75). Il discorso di Kwame Nkrumah, presidente del Ghana primo stato indipendente africano, fu il più atteso della conferenza. Teorico del socialismo africano e del boicottaggio pacifico, prometeo della grande utopia politica del continente, Nkrumah espose la necessità di una seconda rivoluzione dopo la forma transitoria del bivio, spiegò le regole dell’indipendenza come opportunità e dell’unificazione graduale e denunciò il neoimperialismo dei client-states, la pericolosità per il panafricanismo degli stati fantocci e pseudo indipendenti:
Nkrumah attacca dunque il mito dell’indipendenza africana e nella discussione si serve addirittura della paradossale definizione di unindependent independence. Nkrumah spoglia l’Africa dei simboli esteriori dell’indipendenza, mettendone a nudo la drammatica realtà, ossia “la debolezza e l’impotenza dei nostri stati..”
(p. 63)
Nkrumah aveva un sogno: Se tutta l’Africa fosse unita… E invece ancora oggi il suo continente deve vincere gli abissi sociali causati dal colonialismo e ingigantiti dalle prevaricanti politiche post-coloniali, senza raccogliere gli insegnamenti di panafricanisme di Nkrumah e Lumumba che, come Castro Mao Tse-tung e Ghandi, attraversarono i loro paesi per parlare ai popoli e lasciare che questi imparassero nonostante le arretratezze della divulgazione mediatica. Kapuściński ha esposto in Ebano con esemplare ermeneutica il dramma in cui ancora oggi precipita qualsiasi uomo politico del Terzo Mondo, benché onesto e patriottico:
È stato il dramma di Nehru, di Neyerere e di Sékou Touré. L’essenza del dramma consiste nella tremenda resistenza della materia in cui s’imbatté ognuno di questi uomini nel compiere il primo, il secondo e il terzo passo ai vertici del potere. Vogliono qualcosa di buono, cominciano a farlo e dopo un mese, un anno, tre anni, si rendono conto che ogni cosa sprofonda nella sabbia. Tutto sbarra loro la strada: l’arretratezza secolare, l’economia primitiva, l’analfabetismo, il fanatismo religioso, la cecità tribale, la fame cronica, il passato coloniale con la sua politica di tenere i vinti nell’oppressione e nell’ignoranza, il ricatto degli imperialisti, l’avidità dei corrotti, la disoccupazione, i bilanci passivi. In queste condizioni il progresso diventa un’impresa disperata. L’uomo politico comincia a dibattersi, cerca nella dittatura una via d’uscita. La dittatura suscita l’opposizione e l’opposizione organizza il colpo di stato. E il ciclo ricomincia.
(R. Kapuściński, Ebano, pp. 106-107)
Mentre nel 1962 il giovane inviato polacco attraversa il continente, la metà dei paesi africani è ormai indipendente e ha i suoi governi, i suoi inni e le sue bandiere, i suoi rappresentanti alle Nazioni Unite, i suoi primi colpi di stato militari, i suoi debiti esteri e i suoi piani di sviluppo economico. Ugualmente nel 2.0 Kapuściński sarebbe partito alla volta di Tunisi, Il Cairo o Tripoli per raccontarci le rese di Ben Ali e del rais Mubarak o gli ultimi giorni al potere di Gheddafi. Perché l’attualità dei reportage di Kapuściński è straordinaria e avvilente al tempo stesso quando il cronista spiega all’opinione pubblica europea le dinamiche di eterno ritorno nel caleidoscopio africano: i conflitti tra emigrati, combattenti partigiani e collaborazionisti; l’impossibile unificazione dei partiti politici a causa dell’odio tribale (mostruosa e diabolica ossessione africana) e dell’arretratezza divulgativa; il capitale valore della prigionia e dei colpi di stato militari nei processi mitopoietici; la nascita di una borghesia nazionale corrotta e sprezzante i propri elettori; l’assenza di una pianificazione dello sviluppo economico; l’incremento di una crisi aggravata dalla falsa politica degli investimenti di prestigio e appannata dagli slogan retorici sul bene pubblico; l’esautoramento delle istituzioni democratiche e giudiziarie; i brogli elettorali; i vizi del lusso e le stravaganti, inutili e dispendiose visite estere dei politici e delle loro famiglie a spese dello stato; l’emarginazione di un’intellighenzia declassata; i parlamentari comprati e la povertà diffusa.
Negli ultimi cinquant’anni si sono presentate delle varianti e delle nuove possibilità politiche, ma nel controverso continente africano le dittature sono ancora una cifra dominante così come le falcidianti guerre civili e tribali che fanno somigliare l’Africa alle tragedie politiche di Shakespeare in cui «tutti muoiono, i troni grondano sangue e il popolo contempla muto e atterrito il grande spettacolo della morte». (R. Kapuściński, La prima guerra del football, p. 140). Eppure Kapuściński ha coperto un’estensione di trenta milioni di chilometri quadrati per testimoniare quanto accaduto nei cinquanta stati del continente e soprattutto comprendere quello che potrà accadere, «raccontare come stessero veramente le cose, perché questa è la nostra ambizione, l’ambizione della confraternita giornalistica» (p. 11).
Antesignano di un rarefatto modello di reportage critico, antropologico, storicista e insieme interpretativo, Ryszard Kapuściński ci ha regalato una delle più grandi lezioni di giornalismo sociale. Ovvero la testimonianza, quanto mai stringente e attuale, della rivoluzionaria presa di coscienza dei popoli africani (sudamericani e mediorientali) in nome di una nuova storia possibile.
R. Kapuściński, Se tutta l’Africa, Milano, Feltrinelli, 2012, pp. 279, € 16.
Id., Ebano, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 277, € 10.
Id., La prima guerra del football, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 237, € 7.