Mio fratello scriveva una sola lettera all’anno, un pugno di giorni prima di Natale. Buttava giù quattro o cinque nomi di cose che aveva già e lasciava il foglio di carta piegato a metà sotto il cuscino del letto di mia madre. La scriveva come se gli fosse stata commissionata, e proteggeva gli altri dalle proprie reazioni non desiderando niente che non possedesse già. Mia madre si discostava di poco dalle direttive ricevute: cercava un titolo diverso dello stesso videogioco, lavorava di psicologia, si chiedeva cos’avrebbe desiderato lei, all’età di suo figlio, se fosse stata un maschio, dal temperamento pigro e accondiscendente. Credo che fosse proprio la natura flemmatica di mio fratello, derivata da un’ippocratica beatitudine di pensiero[1], a renderlo incapace di entusiasmarsi, consentendogli di godere più di altri della placida dimensione dell’attesa.

Io, al contrario, cedevo di continuo al ricatto della velocità; ipotizzavo quale dei miei desideri sarebbe rimasto irrealizzato, e quale invece, una volta realizzato, avrebbe disatteso le mie aspettative. Avevo saggiato ogni possibilità e attendevo platonicamente la conferma delle mie teorie. Nel mentre, mio fratello restava comodo, pronto a sorprendersi, al riparo da ogni delusione, improduttivo ma inattaccabile come certi dittatori dagli occhi buoni.

Attendevamo quei cinque giorni che ci separavano da Natale in modo così differente che pareva vivessimo in due periodi dell’anno antitetici. Non vedo l’ora dell’estate, gli dissi sul finire di una vigilia trascorsa a condividere la noia della nostra stanza. Mio fratello era in attesa che la sigla del suo videogioco terminasse, nonostante bastasse schiacciare il tasto “start” per passare immediatamente al menù principale. Non nascondo di aver cercato di provocare in lui una reazione di qualche tipo. Quel motivetto, ripetuto all’infinito, mi era entrato nelle orecchie al punto da impedirmi di ignorarlo. Chissà zia Ramona, mi rispose dopo una manciata di minuti, ha il termine al solstizio d’estate.

Mi è difficile considerare il tempo dell’attesa come qualcosa di sintetico; forse il sincretismo della poesia non è funzionale alla definizione di un tempo esteso, allungato. Può avere una direzione, o roteare greca su se stessa, ma l’attesa richiede sempre un tempo (qualcuno direbbe da ingannare) che la poesia di per sé vorrebbe elidere. Attendere è una sorta di momento svuotato di significato che ha senso solo in vista della sua fine. La fine dell’attesa carica di senso l’attendere. A meno che, come per mio fratello, il significato non stia nell’atto stesso dell’attendere.

La vanità dell’attesa di cui si nutrono certe poesie romantiche è qualcosa che, ahimè, si comprende solo  tra le braccia dell’obiettivo raggiunto, e non mentre si attende. Un filosofo[2] che non ho mai amato diceva che progettare la propria esistenza in visione della morte significa vivere in modo autentico poiché permette di recuperare il senso delle proprie possibilità. Mio fratello ha sempre atteso facendo tutt’altro, si è sentito autentico quando, nel 2005, l’Inter ha vinto quello che per lui era il primo scudetto: aveva 17 anni e l’aveva atteso, letteralmente, per tutta la vita. Col Triplete è diventato maggiorenne.

Ad alcuni le cose accadono col contagocce, e finisce che nell’attesa del botto s’annoiano a morte per tutta la vita. Non che poi lo aspettino a lungo, il botto. Basta che ne abbiano una qualche idea generale per tendere ad essa in modo convincente, come accade con le utopie pratiche di certe commedie americane degli anni Trenta. C’è poi chi decide per tempo di vivere senza farsi intralciare dalle circostanze e impara a difendersi dalle illusioni. Sono quelli che passano attraverso i tentativi falliti, che sentono con misura e soffrono di meno. Poi ci sono gli altri. Quelli a cui le cose accadono eccome. Sono travolti da avvenimenti sensazionali, nelle loro vite per l’attesa non sembra esserci spazio.

Di questi non ho mai avuto un’opinione precisa; le mie attese quotidiane sono sempre o quasi occasioni mancate. Perdo l’autobus, ne attendo un altro, perdo la pazienza, aspetto che mi torni. Come se tutto il tempo fosse in fondo un tempo di attesa e, di tanto in tanto, un accadimento ne spezzi la monotonia. Quello che importa forse è durare nel mezzo, sterzare a tre quarti, non cambiare idea fino alla fine.

Gli scarabei ciprioti di Gerarld Durrell[3] sopravvivono solo se, aggrappati alle zampe di un’ape fecondata, raggiungono la cella dove l’insetto ha deposto le uova. Mi domando se anche l’uomo debba attendere l’occasione propizia, o se invece debba aggrapparsi all’ape di turno e confidare nel calcolo delle probabilità, nel totocalcio, nell’oroscopo di Brezsny. Essere artefice del proprio destino e insieme un inguaribile fatalista.

Della propria vita ciascuno può davvero fare ciò che vuole? E tra queste, c’è la possibilità di attendere che le cose cambino senza che qualcuno intervenga? Non sempre l’intraprendenza paga, ma le dittature, indisturbate, durano mediamente 40 anni.

Ho avuto l’ordine di non muovermi, scriveva Roland Barthes nei suoi Frammenti di un discorso amoroso, l’attesa è un incantesimo e l’innamorato è quello che aspetta. Nel mentre però, può anche accadere che ci si innamori di qualcun altro.


[1]    La teoria umorale di Ippocrate sostiene che quattro umori governino la salute (crasi) combinandosi in modi differenti. Di questi il flegma è un umore freddo che proviene dal cervello e che, se preponderante sugli altri tre umori, causa nell’individuo il temperamento flemmatico.

[2]    Martin Heidegger.

[3]    Gerarld Durrell, La mia famiglia ed altri animali, Adelphi, 1990.