casa vuota

di Davide Saini

Per la serie dei dobloni, sporadici e incostanti per definizione, vorrei proporre alcune parole di Giorgio Caproni. Non a caso, ma all’interno di una riflessione sul concetto di casa e di come in base a ciò possono cambiare i modi di muoversi nella realtà e nel mondo; insomma mi sono chiesto dove sono le miei radici? Dove sono piantato? Quanto questa iniziale forma influisce sulle mie scelte quotidiane?

Quanto le radici, le origini, diventano malferme senza un terreno coltivato, senza una casa vissuta da generazioni e generazioni, senza degli alberi e delle piante cresciute con l’amore della propria famiglia come se stessi? Ancora: quanto le radici umane e familiari sono messe alla prova dalla città? Dalla vita metropolitana? E quali sono le conseguenze?

 

Su un vecchio appunto 

Ora, sazio della città – delle sue tentazioni

e dei suoi crimini – mi sono ritrovato al limitare

del bosco. Ad appagarmi la vista, poco

mi basta: lo scintillio del fiume nel sole del

mattino, giù a fondo valle. Un albero…

 

Un albero…

Com’è leggero

un albero, tutto ali

di foglie – tutto voli

verdi di luci azzurre nel celeste

dell’aria…

 

E com’è forte,

un albero, com’è saldo

e fermo, «abbarbicato

al suo macigno»…

 

Viene

l’autunno, e come

la Fenice s’accende

nel rosso del suo rogo.

 

Viene

primavera, e splende

d’altro suo verde…

 

Ma noi,

noi, al paragone,

che cosa e chi siamo, noi,

senza radici e senza

speranza – senza

alito di rigenerazione?

 (da Il franco tiratore)

 

Un senso di sradicamento forse insensato, ma che sembra complicare un percorso lineare. Non consente, infatti, di partire da un luogo, un terreno, anche solo un sasso preciso che sempre è stato lì e sempre rimarrà lì. Quanto questa mancanza diventa mancanza di noi a noi stessi?

 

Parole (dopo l’esodo) dell’ultimo della Moglia 

Chi sia stato il primo, non

è certo. Lo seguì un secondo. Un terzo.

Poi, uno dopo l’altro, tutti

han preso la stessa via.

 

Ora non c’è più nessuno.

 

La mia

casa è la sola

abitata.

 

Son vecchio.

Che cosa mi trattengo a fare,

quassù, dove tra breve forse

nemmeno ci sarò più io

a farmi compagnia?

 

Meglio – lo so – è ch’io vada

prima che me ne vada anch’io.

Eppure, non mi risolvo. Resto.

Mi lega l’erba. Il bosco.

Il fiume. Anche se il fiume è appena

un rumore ed un fresco

dietro le foglie.

 

La sera

siedo su questo sasso, e aspetto.

Aspetto non so che cosa, ma aspetto.

Il sonno. La morte direi, se anch’essa

da un pezzo – già non se ne fosse andata

da questi luoghi.

 

Aspetto

 

e ascolto.

 

(L’acqua,

da quanti milioni d’anni, l’acqua,

ha questo suo stesso suono

sulle sue pietre?)

 

Mi sento

perso nel tempo.

 

Fuori

dal tempo, forse.

 

Ma sono

con me stesso. Non voglio

lasciar me stesso – uscire

da me stesso come,

la notte, dal sotterraneo

il grillotalpa in cerca

d’altro buio.

 

Il trifoglio

della città è troppo

fitto. Io son già cieco.

Ma qui vedo. Parlo.

Qui dialogo. Io

qui mi rispondo e ho il mio

interlocutore . Non voglio

murarlo nel silenzio sordo

d’un frastuono senz’ombra

d’anima. Di parole

senza più anima.

 

Certo

(è il vento degli anni ch’entra

nella mente e ne turba

le foglie) a volte

il cuore mi balza in gola se penso

a quant’ho perso. A tutta

la gaia consorteria

di ieri. Agli abbracci. Gli schiaffi.

Alle matte risate,

la sera, all’osteria

dietro alle donne. Alte

da spaccar le vetrate.

  

Ma non m’arrendo. Ancora

non ho perso me stesso.

Non sono, con me stesso,

ancora solo.

 

E solo

quando sarò così solo

da non aver più nemmeno

me stesso per compagnia,

allora prenderò anch’io la mia

decisione.

 

Staccherò

dal muro la lanterna,

un’alba, e dirò addio al vuoto.

 

A passo a passo

Scenderò nel vallone.

 

Ma anche allora, in nome

di che, e dove

troverò un senso (che altri,

pare, non han trovato),

lasciato questo mio sasso?

(da Il muro della terra)