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Questo articolo è uscito su Nazione Indiana

di Giacomo Raccis

Ci sono scrittori che prediligono titoli piani, anonimi, che passino sotto silenzio, che magari colpiscano proprio in virtù della loro genericità: Ammaniti con Io e te, ad esempio, uscito lo stesso anno del Leielui di De Carlo; ce ne sono altri che invece provano a toccare il lettore che vaga per gli scaffali della libreria con una sola ma incisiva parola: la Violazione di Sarchi o lo Spaesamento di Vasta; ci sono autori, poi, che con un titolo aprono interrogativi a cui talvolta neanche la lettura riesce completamente a rispondere: è il caso di Woobinda di Aldo Nove o, oltreconfine, del 2666 di Bolaño. Poi ci sono gli scrittori che quando devono scegliere il titolo della loro ultima fatica decidono di far squillare le trombe della propria fanfara: Walter Siti, almeno da qualche anno a questa parte, è uno di questi. Tralasciando Autopsia dell’ossessione (2010), che al lettore esperto suonava già familiare, con quel suo esplicito richiamo alla funerea e patologica mania che abita il personaggio protagonista dei suoi principali romanzi, lo scrittore modenese, esegeta e in qualche modo emulo del Pasolini narratore, ci regala, a stretto giro di posta, Resistere non serve a niente (Rizzoli 2012) e Il realismo è l’impossibile (nottetempo 2013): un romanzo e un saggio (“libretto” lo chiama Siti) che a un tempo segnano una cesura nella produzione dello scrittore e provano a gettare uno sguardo retrospettivo su tutta la sua opera. Niente di male, fin qui. Se non fosse che, allo scandalismo provocatorio e moralistico dei due titoli, non sembra corrispondere un altrettanto illuminante contenuto.

Considerato da molti il romanziere italiano più importante degli ultimi quindici anni, Walter Siti sembra aver già dato il meglio di sé, e soprattutto, sembra essersene accorto da solo. Dopo aver stupito tutti con la creazione del più emblematico e riuscito protagonista autofinzionale che la letteratura italiana possa vantare, l’autore si trova in un impasse. Quel «Walter Siti come tutti» di Troppi paradisi (2006) – già abbozzato in Scuola di nudo (1994) e poi sostanzialmente riproposto nel Contagio (2008) e nell’Autopsia –, cinico profeta della fine di qualsiasi engagement per un intellettuale chiamato piuttosto a dar sfogo alle proprie pulsioni più depravate e ipocrite, e allo stesso tempo sonda esplorativa di un universo borgataro di esplicita impronta pasoliniana, aggiornato alla società liquida (personaggi privi di rotondità psicologica) e televisiva (il mondo della TV come sogno degradato per un riscatto facile quanto deperibile, ma anche come modello di comportamento e specchio di una nuova direzione dell’evoluzione sociale), quel “Walter Siti”, si diceva, sembra aver esaurito la propria missione di perlustrazione. Lo scavo, della psiche dell’io (unico soggetto su cui egoticamente valga la pena concentrare lo sguardo) e della società popolare (ridotta a funzione delle nichilistiche e masochistiche perversioni dell’io), è stato compiuto. Servono nuovi orizzonti: ecco allora giungere in soccorso dell’autore l’ancora inesplorato mondo delle collusioni tra camorra e alta finanza, pur sempre incistato nella realtà popolare di Roma e delle sue periferie. È il panorama che offre Resistere non serve a niente. Ora gli orizzonti necessariamente si aprono: a fianco della capitale compaiono altri set, internazionali ed esotici, dalle vacanze ai Caraibi su aerei privati ai viaggi in trimarano al largo delle Canarie, fino alla più “classica” delle seconde case a Cortina. I “Tommaso” e le “Stella” (nomi tipicamente pasoliniani, riconosce lo stesso Siti) non sono più chiamati a battersi in una disperata lotta per la sopravvivenza, ma diventano protagonisti di un’altra spietata competizione; quella di un mondo, tra capitalismo finanziario, jet set e criminalità organizzata, che porta al massimo grado posta in gioco e violenza d’azione, anche se sembra conservare intatte certe logiche proprie anche dell’universo borgataro (le clientele, la mercificazione del corpo, il cinismo disincantato di fronte alla vita).

walter-sitiCambiando il mondo rappresentato, però, cambia inevitabilmente anche la posizione dell’io, costretto in Resistere non serve a niente a declinare diversamente il suo egotico desiderio di “fare centro” per raccontare la storia di Tommaso Aricò, «un sellerone mal cresciuto, un formichiere allevato in una tana di furetti; la mascella rettangolare e le labbra sottili, tutto quello che odio di un uomo» (p. 26). Avere accesso a tutti i segreti dell’esistenza di un broker miliardario, affermatosi attraverso “delitti” efferati e pegni impronunciabili, consente però a “Walter Siti” di recuperare per via indiretta il suo ruolo preferito, ovvero trovare le parole per dire ciò che nessuno si confesserebbe mai, e che in questo caso trova una doppia conferma: non solo dall’esperienza moralmente inaccettabile del protagonista, ma anche dalla defezione etica con cui il suo biografo decide di aderirvi integralmente. La legge della verosimiglianza, «verde praticello in declivio dove non si rischiano né querele né accuse di esibizionismo» (165), impone di lasciare a qualcun altro l’onere di fare esperienza diretta del mondo oscuro delle bolle speculative e del surfing finanziario; tuttavia, facendosi specchio deforme della storia altrui, “Walter Siti” riesce ancora una volta a mettersi nella posizione di chi fa scandalo: «credo di dire cose intelligenti solo perché le sparo grosse… sento fraterno chi si mette fuori dall’umano, come se fuori dall’umano ci fosse qualcosa…» (170). A colpire chi legge, allora, non saranno più le scene di sesso libertino e orgiastico, né l’esistenza di quest’individuo al di là di qualsiasi norma etica o sociale: il colpo più duro lo infligge ancora una volta l’autore, o meglio, il suo doppio narrativo, quando rinuncia a farsi filtro imparziale per prendere e dichiarare la propria posizione. Una posizione che non può che essere quella sbagliata, unica possibile per chi ha perso ogni speranza nell’uomo e non attende altro che il suo definitivo esaurimento. Non è “Walter Siti” a confessare il rapporto sessuale avuto con la figlia minorenne di un “socio” in difficoltà economiche, tuttavia è “Walter Siti” a dichiarare la struggente tenerezza procuratagli dal vedere un uomo distrutto dal piacere provato per un atto tanto meschino.

Così, confermando il paradigma dell’intellettuale decaduto e nichilista (in questo romanzo acuito anche dalla precarietà abitativa del protagonista, che accetta l’ingaggio di Aricò per potersi garantire una casa), lo scrittore propone ancora una volta l’immagine di un personaggio che ha deciso di contravvenire tutte le “convenzioni” del consorzio civile, che si denigra per ogni compiaciuta infrazione, ma che non riesce mai a spostare questa infrazione dal piano del discorso a quello dell’esperienza. “Walter Siti” osserva sempre da fuori, accontentandosi di «un’esperienza mediata da una protesi» (Giglioli, Senza trauma, p. 80): «….forse sei il mio stuntman, quello che esegue per me le scene pericolose…un prototipo della mutazione…o forse, più in profondità, sei il mio vendicatore» (314).

A questo punto, però, bisogna ritornare allo spunto da cui sarebbe voluto partire questo intervento, ovvero il breve saggio Il realismo è l’impossibile, con cui Siti decide di mettere sul tavolo le proprie carte di scrittore. Il lettore meno esperto, che si avvicina con curiosità ingenua ma ricettiva a questo “opuscolo” (80 pagine in formato 10×15), si fa coinvolgere dalla grande enciclopedia che Siti dispiega per esemplificare i passaggi principali dell’annosa questione del realismo (e, detto per inciso, non saremo mai abbastanza grati a chi riesce a rendere chiari e comprensibili concetti di non immediata evidenza, come il barthesiano «effet du réel» o l’astrattissima “semiosi illimitata”). E allora ecco brillanti aneddoti provenienti da differenti latitudini della nostra letteratura, come di quelle straniere, e soprattutto dai più disparati campi di quelle che vengono orrendamente definite “scienze umane”: dalla pittura al cinema, dalle arti performative fino alla storia delle religioni. Siti convoca tutto quanto può contribuire a inserire il discorso sul realismo entro un quadro che comprenda l’intera civiltà occidentale, con tutto il peso della sua tradizione (dove Stanislavskij e Warhol possono stare vicini a Dante e Dostoevskij).

Al lettore più attento, invece, che conosce l’opera del romanziere (e chissà, magari anche del giovane accademico che a 26 anni scriveva Il realismo dell’avanguardia, uscito per Einaudi nel 1973), una volta superata la prima piacevole quanto piatta parte metodologica, viene spontaneo misurare le dichiarazioni più oggettive dell’autore sui modelli rappresentativi del romanzo con la sua ultima e discussissima fatica. E non si tratterebbe certo di un’operazione capziosa. Innanzitutto perché in chiusa di Resistere non serve a niente (312), quando “Walter Siti” e Tommaso Aricò fanno i conti – un po’ didascalici in effetti – sul rapporto che li ha legati durante il periodo della stesura del romanzo, il narratore cita quell’Origine del mondo, tela di Gustave Courbet, che campeggia nelle prime pagine del saggio come modello della sfida all’informe finitezza del mondo a cui si vota il realismo (quadro che avrebbe fatto dire a Picasso: «Le réalisme, c’est l’impossible»). Ma in secondo luogo, perché a chiederci di leggere questi due testi uno di fianco all’altro (e con un occhio anche agli altri romanzi) è lo stesso Siti: «tanto è chiaro che il pudore è andato a farsi benedire e che questo non è un saggio sul realismo ma una bieca ammissione di poetica» (48).

SitiInfatti, una volta conclusa la ricognizione sugli attributi “classici” del realismo (il rapporto conflittuale con il verosimile, la necessaria complicità con verità e menzogna), l’autore decide di esporre la sua specifica posizione al giudizio del proprio lettore. È una strategia ormai nota, quella di Siti, messa alla prova, come si è visto, in tutti suoi romanzi autofinzionali, dove l’io protagonista non teme di scadere nel patetico (che al contrario sembra una corda molto consona a Siti) per chiedere venia al lettore dei propri orribili e bellissimi peccati. Qui non si ha più a che fare con giovani aitanti che si mantengono ricattando i propri protettori, né con l’irresistibile attrazione suscitata da chi si mostra potente e dannato. Qui la posta in gioco è più sottile e astratta, ma forse più importante (almeno per giudicare uno scrittore): si tratta infatti di giustificare le proprie scelte estetiche, le opzioni tecniche e stilistiche dei propri romanzi.

Anche in questa circostanza l’autore non può fare a meno di mettere in campo il proprio armamentario di ammissioni, scusanti e sensi di colpa, inscenando il consueto autodafé. Tuttavia, se è legittimo, e anzi naturale, concedere allo scrittore di fondare la propria formula rappresentativa (il «realismo gnostico») su una personale percezione della realtà («Per stare in equilibrio tra cronaca e lirica, tra amore per la realtà e rancore per quel che la realtà non ha saputo essere per me (o io per lei) […] il metodo che mi sono abituato a usare è l’assorbimento dei miti», 61), meno corretto è che egli ricorra alla sua esperienza emotiva anche per dare conto e giustificare pregi e difetti dei risultati raggiunti in virtù di quella scelta estetica. In questo senso, l’autofiction come tecnica rappresentativa privilegiata di fronte al reale diventa l’esito di una scelta funzionale al confronto tra lo scrittore e i suoi demoni interiori, ovvero una questione “privata”, se è vero, come ci dice Siti, che a determinarla è stata la «paura di morire muto, paura che se parlavo [sic!] sinceramente tutti mi avrebbero abbandonato, paura di sostenere le mie idee senza nascondermi dietro il piagnucolio» (76). Con questa pratica ricattatoria, Siti si mette al riparo da qualsiasi eventuale critica: nulla è più personale e conta di più del rapporto tra uno scrittore e la sua coscienza, non è possibile sindacare su una scelta radicata così a fondo nell’esperienza emotiva dell’uomo. Solo che, in questo modo, il lettore e il critico sono messi fuori gioco, esautorati della loro funzione di interpreti: non possono far altro che constatare, al massimo condividere. Ma a livello empatico, nulla di più. E questo fatto diventa emblematico nel momento in cui Siti, non pago, decide di assecondare la sua vena autocommiserativa e autocompiaciuta (ormai diventata maniera) per mettersi spontaneamente sul banco degli imputati, riconoscendo i propri torti: «ricorro agli stereotipi quando non ho il coraggio di andare a vedere, anche sul piano della poetica il mio nemico è la paura. […] non sono contento di me quando tradisco il realismo per il bozzetto» (77-78).

Siti si costituisce e si consegna alle forze dell’ordine del Realismo: a noi, lettori e critici, non resta che prendere atto dell’ennesima messa in scena di un io che non può rinunciare a esibirsi e demolirsi, che non può fare a meno di imporsi con lo scandalo di un’esasperata autocoscienza. Con maliziosa consapevolezza Siti si mostra ancora una volta in cerca di un’assoluzione che la sua macchina retorica dovrebbe indurre automaticamente. Questa volta, però, è nostro dovere non concedergliela. Se anche possiamo accogliere la sua definizione “residuale” di realismo (per cui lo scrittore non è altro che «uno stolto demiurgo che cerca di mimare una Creazione che non conosce», 59), non possiamo accettare di farne un cavallo di troia che apra il campo a una scrittura sempre più rinunciataria, nelle intenzioni così come nei risultati. Siti ha rivelato il «ricatto dell’argomento» con cui ha cercato di tenere i lettori avvinti ai propri romanzi: ora questo non basta più. La sensazione è che queste pagine teoriche finiscano con il torcersi contro il loro autore, mostrando uno scrittore che, anche nel momento del colloquio più diretto e “sincero” con il proprio lettore, non rinuncia a mettersi in maschera, tanto da lasciarci con il dubbio che quelle che leggiamo siano ancora una volta le parole di un suo doppio finzionale, ennesima manifestazione di un io senza corpo, perso tra i riflessi di un incontrollabile gioco di specchi.

In questo tempo di poetiche incerte ed estetiche ambigue, non credo che alla letteratura italiana serva uno scrittore dallo statuto tanto debole da accettare di farsi teorico solo a patto di non infangarsi sul campo del pubblico agone (e si veda infatti come Siti schivi, e anzi sminuisca, le attuali discussioni sul «nuovo realismo», e al contrario si erga a giudice dei risultati, non dei progetti, dell’odierna narrativa italiana). È vero, Siti ha ragione, sporgersi è il verbo che dovrebbe compendiare ogni forma di realismo, e più in generale di scrittura. E ha ragione anche quando ci ricorda che questo sporgersi non è messo a rischio solo quando si ricorre agli stereotipi, ma anche, o soprattutto, quando si rinuncia a mettersi in gioco. Il problema sta nel capire fino a che punto il gioco che lui ha in mente ci riguarda tutti.