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di Liea

“L’inferno sono gli altri”, chiosava Sartre nel suo dramma A porte chiuse, solo che in quest’opera di Koltès di chiuso non c’è nulla: l’ambientazione, la prospettiva esistenziale dei protagonisti e soprattutto il finale risultano aperti e destabilizzanti. Ma del dramma del celebre filosofo, rimangono le stesse interazioni tra i personaggi: infernali e “al massacro” tanto quanto nel testo sopracitato.

Più che di interazione qui bisogna parlare di lotta fino all’ultima goccia di sudore: siamo in una sconfinata e desolante pianura del Senegal dove i “civilizzati” francesi stanno lavorando in un cantiere edile insieme ad operai indigeni, i “bubu”, come li chiama con disprezzo Cal, un odioso operaio bianco più selvaggio e ancestrale di tutti i neri che disprezza (interpretato da un giustamente inquietante Rosario Lisma).

È questo il luogo dello scontro – tra etnie, culture e dimensioni antropologiche troppo diverse – scatenato da Alboury, un nero del villaggio che pretende il corpo del fratello morto sul cantiere, per restituirgli le giuste esequie funebri secondo i rituali della loro cultura; urgenza incomprensibile ai bianchi. Il disagio, l’alienazione, il senso di estraneità vengono perfettamente instillati nel pubblico attraverso un’abile e volutamente scomoda scenografia che riproduce la dimensione del cantiere, collocando il pubblico su delle pedane – fatte di tubi Innocenti e luci al neon – rialzate rispetto alla scena che, in basso, ricorda un ring da boxe e al tempo stesso un voyeuristico pozzo.

Koltès è noto per opere che trattano di battaglie ancora oggi cogenti: razzismo, violenza, questione omosessuale, immigrazione, lotta di classe; il suo stile, soprattutto attraverso un linguaggio destabilizzante e cangiante, non manca di sottolineare quanto l’uomo sia solo in ogni battaglia che decide di affrontare: a tratti di un lirismo quasi ermetico, talvolta di un’aggressività sconcertante e diretta, in questa occasione raggiunge una vetta altissima tra un eccellente interpretazione di Alfie Nze – che mescola italiano, inglese, francese e igbo, la sua lingua madre – una potentissima Valentina Apicello nel ruolo di Leòne, il personaggio più poetico e destabilizzante di tutti, e un incredibile Alberto Astorri nel ruolo di Horn, l’unico veramente umano e razionale in questo contesto dove però la conciliazione è un’arma che ti si ritorce contro.

Il tutto è accompagnato da scelte musicali e rumoristiche interessanti e nuove rispetto ad altre regie che, spesso, hanno ceduto al pittoresco e al tribale: qui l’urgenza è quella di sottolineare talvolta il lirismo straniante, talvolta la desolazione, tal’altra l’irrompere della realtà con i rumori seccanti tipici di un cantiere.

Quello che sconvolge della performance è la grinta e l’energia che gli attori riescono a tenere invariata – e se è possibile in crescita – per le due ore abbondanti di spettacolo: è sconvolgente la loro abilità nel rendere questa lotta tra animali selvaggi, dove nessuno – e i bianchi colonizzatori a maggior ragione – ne esce senza un marchio di infamia primordiale.

Purtroppo la drammaturgia non è sempre altrettanto entusiasmante: si alternano troppo spesso attimi di grande tensione a momenti di stasi estenuante, tanto che verso la fine sembrano esserci almeno due o tre finali plausibili e insoddisfacenti al tempo stesso.

Insomma, da provare come esperienza: per chi ama la drammaturgia di questo autore, ma anche per chi ha voglia di fare un’esperienza che permetta di capire il senso di disagio di chi si percepisce straniero in una terra di cani pronti a sbranarti.

Lo spettacolo è in scena al Teatro i Fino a lunedì 17 giugno

Lotta di negro e cani
di Bernard-Marie Koltès
traduzione di Valerio Magrelli
regia e scene di Renzo Martinelli
con Alberto Astorri (Horn), Rosario Lisma (Cal), Alfie Nze (Alboury), Valentina Picello (Léone)
drammaturgia di Francesca Garolla
scene di Renzo Martinelli
luci Luigi Biondi
Produzione Teatro i
in collaborazione con Face à face – Parole di Francia per scene d’Italia e Institut Français Milano