La moltiplicazione di imprese editoriali piccole e piccolissime; la discutibile politica degli “esordienti” – arrivata quasi a codificare un sottogenere letterario; la relativa facilità di accesso al sistema editoriale; l’esplosione di festival, rassegne e saloni come principale mezzo per rendere attraente e vendibile il mondo dei libri; i social network e la blogosfera letteraria; la trasformazione della figura dell’intellettuale; la discussione su nuove e vecchie categorie teoriche come tentativo di rilanciare una riflessione critica sulla scrittura…
Tanti sono i problemi e altrettante le potenzialità che si aprono a chi scrive al tempo del web 3.0 e del “tutto culturale”. Chi meglio dei “nuovi entrati” nel sistema letterario italiano può rispondere a dieci domande sulla scrittura e le sue forme nell’Italia degli anni Dieci?
1) L’enorme quantità di libri che oggi invadono le nostre librerie mette a dura prova le capacità di “resistenza” delle opere di valore che si affacciano sul mercato. Secondo te, dovrebbe essere compito del “sistema” trovare un nuovo rigore nel filtrare più attentamente le candidature di giovani autori, o spetta piuttosto a chi scrive una maggiore responsabilità, una sorta di autocensura da mantenere fino a che la propria scrittura non abbia raggiunto un giusto livello di maturazione?
Credo che dipenda tutto dagli obiettivi che case editrici e scrittori si pongono. Se per la casa editrice incrementare il fatturato è vitale e il marketing ritiene che la pubblicazione a valanga di nuovi titoli sia il modo migliore per ottenerlo, è ovvio che non si ponga il problema di fagocitare l’opera meritevole di un suo autore sconosciuto. Dall’altra parte spesso gli autori tendono a sottovalutare l’importanza della necessità o compiutezza del libro, data l’urgenza di cogliere l’opportunità di pubblicare o di ritornare sullo scaffale. Al di là di questo, comunque, un autore esordiente è libero di proporre quello che ritiene un lavoro buono e anche uno meno buono: spetta alla casa editrice valutare l’effettivo valore del testo, magari riconoscendogli delle potenzialità non ancora espresse, individuando insomma nel dilettante la stoffa dello scrittore e aiutandolo a crescere. Il fatto è che attualmente le case editrici considerano questa un’attività secondaria e parallela rispetto a quella missione quotidiana che è il restare a galla. E del resto non ho notizia di uno scrittore che si sia lamentato di un successo notevole raggiunto con un libro immaturo o propriamente mediocre, quindi immagino che la possibilità che una nuova uscita vada bene a prescindere dal valore o dalla compiutezza del testo vada bene un po’ a tutti.
2) Gli spazi della scrittura sono oggi moltiplicati a dismisura, in rete e non solo: credi che lo scrittore faccia bene a cercare di occuparli in maniera più massiccia possibile, o paga di più una strategia di discrezione, di scrittura mirata? In sostanza, esiste una “necessità” della scrittura in questo sistema che ha decuplicato le occasioni di parola?
Io non so so se si può dire che uno scrittore faccia bene o male a scrivere un pezzo. So che quando finisco di leggere un articolo di Violetta Bellocchio, di Giorgio Fontana o di Cristiano de Majo non penso mai che se lo potevano risparmiare, che si trattava di qualche cartella buttata lì a occupare uno spazio per ricordare al mondo che esistono. In compenso l’ho pensato diverse volte di scrittori onnipresenti che su testate nazionali hanno commentato la dieta Dukan o espresso la sorprendente ipotesi che accanto ai romanzi anche i racconti hanno dignità di lettura. Chi può dire alla lunga cosa “paga” davvero? Scrivere in giro, dissertare un po’ di tutto può anche risultare vantaggioso in termini di visibilità ma penso che qualche volta comporti un costo personale che evidentemente non viene conteggiato.
3) Qual è la tua posizione di fronte alla dimensione virtuale del sistema culturale? Trovi che l’esplosione di pareri e idee sia fruttuoso? Pensi che la critica possa trovare in questa situazione le premesse per tornare a orientare scelte e gusti?
Penso che la dimensione virtuale del sistema culturale sia più ristretta di quanto non si creda. Per quanto qualche realtà davvero interessante ci sia, tra riviste e blog di singoli e case editrici, mi accorgo che i libri di cui si parla e le dinamiche che vi ruotano attorno sono quasi sempre gli stessi. Una parte consistente dei fruitori di questi discorsi sono altri addetti del settore (editor, uffici stampa, scrittori ecc.) e, proprio come in un quartiere dove conosci tutti, è difficile distinguere la manifestazione sincera di stima dal classico rapporto di buon vicinato, la promozione del prodotto di qualità dalla promozione del prodotto. In questa dimensione di socialità condivisa non mancano ovviamente gli spunti brillanti e anche le discussioni, ma è come se varie compagnie si alternassero sul palcoscenico di un teatro vuoto, fingendo di non sapere che gli applausi vengono da altri attori dietro le quinte. Per quanto riguarda le scelte e i gusti che fanno la differenza in libreria penso che la pila di cinquanta copie all’ingresso batta sempre la recensione del critico più illustre o famoso. Non un gran danno in certi casi. Con tutto il dovuto rispetto per chi è ritenuto un esperto nel campo, continuo a trovare ridicola la penna che rifiuta di considerare i testi pubblicati dopo gli anni settanta o quella che definisce Ligabue il nuovo Carver. Per essere davvero attendibile la critica dovrebbe essere colta, curiosa e libera. Fuori e dentro il web.
4) Credi sia ancora possibile pensare a un vincolo che leghi la scrittura all’impegno civile?
Non se poi partorisce un fenomeno Saviano: lo scrittore come guru tuttologo a cui chiediamo di salvarci. I libri non cambiano le cose, le persone cambiano le cose se sono attente, sensibili e oneste. E se vogliono farlo. Certo, può darsi che un romanzo ti svegli su un dato argomento, su un aspetto terribile del mondo che ti circonda. Ma nove volte su dieci allo scrittore non importa che tu ci faccia qualcosa: gli faceva male quella cosa e allora ne ha scritto. È tutto.
5) Scrivere è il tuo lavoro? Se sì, in che forme? Se no, come riesci a coniugare il tuo lavoro con la scrittura?
Non direi che scrivere è il mio lavoro. Per vivere faccio l’insegnante e spesso mi sembra di dedicare tutte le mie energie a questo. La scrittura c’è in sottofondo: un pensiero che aleggia, come una specie di desiderio, ma è un pensiero faticoso e, certi giorni specialmente, tornare a casa e mettermi a scrivere mi pare intollerabile. C’è sempre qualcosa che si frappone, un sistema che pensi di poter trovare per migliorare la situazione di questo o quell’alunno, un modo per spiegare Boccaccio che sia diverso, che sia bello. Perciò quando lavoro a un libro mi pare che non esista più un attimo per il riposo o la vita sociale: ho la continua sensazione che il mio lavoro rubi tempo alla scrittura e la scrittura lo rubi a tutto il resto.
6) Quando scrivi, un racconto o un romanzo, che genere di lettore ti immagini? E come cerchi di raggiungerlo?
Di solito se devo pensare a un lettore immagino qualcuno che stimo e che se ne intende che prende in mano il suddetto racconto o romanzo e sventolandolo mi chiede: “E questo? Che roba è?” Allora leggo quello che ho scritto di continuo e mi chiedo se funziona come dovrebbe, mi dico di no, lo riscrivo, poi lo rileggo ancora per trovare i punti in cui ho voglia di metterlo via. Cerco di essere il lettore più severo, di essere la prima a dirmi: e questo? Che roba è?
7) Tra scrittori e critici c’è una forte vicinanza, spesso dovuta a motivi d’amicizia, spesso ad affinità intellettuali; c’è un critico capace oggi di leggere meglio degli altri le evoluzioni e le implicazioni della produzione letteraria italiana?
Non so rispondere a questa domanda perché non ho punti di riferimento fissi per quanto riguarda la scelta delle mie letture o una riflessione profonda sulla letteratura contemporanea. O meglio, non si tratta di singole persone fisiche che potrei citare rispetto ad altre. Leggo volentieri alcuni blog letterari come minima&moralia o doppiozero perché mi piace imbattermi in pareri nuovi, di critici spesso giovani, che non sempre condivido ma che trovo interessanti. Fatico però a individuare un modo di interpretare la produzione letteraria italiana a cui riconoscere una sorta di primato: seguo diverse realtà e cerco di coglierne gli spunti più stimolanti, compresi quelli molto distanti dal mio modo di vedere le cose.
8) Se guardi all’attuale situazione letteraria italiana, ti sembra che si possa parlare di poetiche, di modelli preminenti, o invece prevale un sistema puntiforme dove ognuno costruisce il suo percorso in maniera indipendente rispetto agli altri colleghi, anche se amici o affini?
Mi sembra che come in ogni momento della storia della letteratura ci siano modelli ed epigoni, correnti e modi di intendere la scrittura che possono essere considerati affini (minimalisti, massimalisti, ossessionati dallo stile, ossessionati dal contenuto, intimisti, giovanilisti, passatisti, realisti naturalisti, realisti impossibilisti, romantici, cinici e pessimisti, cinici ma ottimisti, cattolici, politici, spaventati dalla crisi della famiglia, della borghesia, del capitalismo, dei trent’anni e Walter Siti). In questo incasellamento abbastanza brutale e banalizzante mi pare che l’aspetto più interessante sia la ricerca di una propria voce che molti autori soprattutto giovani fanno e che li porta a provare una strada e poi ancora un’altra facendosi influenzare forse da questo o quel collega ma senza farsi ingabbiare del tutto. Per dire, sono curiosa di leggere il prossimo lavoro di Peppe Fiore, di Vincenzo Latronico, di Andrea Tarabbia, di Antonella Lattanzi o di Ester Armanino perché qualunque supposizione su quello che troverò potrebbero ribaltarla. E questo cercarsi, soprattutto all’inizio di un percorso, è una cosa bella.
9) Credi che la tradizione letteraria, e in particolare quella romanzesca, italiana soffra ancora del provincialismo che tanto spesso le è stato imputato? Quando scrivi hai come riferimento autori appartenuti al nostro passato e scrittori che hanno vissuto in altri luoghi?
Credo che mi capiti troppo spesso di leggere un racconto o un romanzo straniero e di pensare che non ho mai letto niente di simile in Italia. Non so se questo dipenda dal fatto che lo scrittore italiano si confronti con una tradizione provinciale ed esageri in questa rappresentazione sempre molto “italiana” delle cose. D’altro canto barattare il nostro vissuto con una realtà più europea o internazionale mi sembra sempre una riverenza fatta cercando di espatriare di notte, di nascosto. Del resto ci sono scrittori e libri molto italiani e molto interessanti che sanno ereditare il meglio dalla nostra tradizione e riproporlo in modo consapevole, potente (Andrea Canobbio e Rossella Milone mi vengono in mente per primi, ma ce ne sono altri). Per quanto mi riguarda, ho una formazione classica, latini e greci mi sembrano echeggiare in tutta la letteratura. Poi leggo sia italiani che stranieri, classici e moderni: se il libro è bello me ne innamoro per un po’ e mi convinco che è proprio così che vorrei scrivere e che dovrei provarci perché è veramente in assoluto questo l’unico tipo di scrittura possibile. Dura fino al libro successivo, ovviamente.
10) Se potessi essere un personaggio letterario, chi ti piacerebbe essere?
Ismaele di Moby Dick. Perché sarei il protagonista di uno degli incipit più belli mai scritti. E perché nella storia di una vita che cerca un senso sfidando la natura in modo umano e sovrumano, lui fa quello che vorrei fare io: se ne sta in disparte e la racconta.
Giusi Marchetta è nata a Napoli nel 1982; vive a Torino dove è insegnante di sostegno in un liceo. Per Terre di Mezzo ha pubblicato le raccolte di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (2008), con la quale ha vinto il Premio Calvino, e Napoli ore 11 (2009). Tiene il blog Alta Infedeltà. L’iguana non vuole è il suo ultimo romanzo (Rizzoli, 2011).
Precedenti puntate di Dieci per Dieci:
13/06/2013 – Giorgio Fontana
20/06/2013 – Gabriele Dadati
27/06/2013 – Alessandro Raveggi