La moltiplicazione di imprese editoriali piccole e piccolissime; la discutibile politica degli “esordienti” – arrivata quasi a codificare un sottogenere letterario; la relativa facilità di accesso al sistema editoriale; l’esplosione di festival, rassegne e saloni come principale mezzo per rendere attraente e vendibile il mondo dei libri; i social network e la blogosfera letteraria; la trasformazione della figura dell’intellettuale; la discussione su nuove e vecchie categorie teoriche come tentativo di rilanciare una riflessione critica sulla scrittura…
Tanti sono i problemi e altrettante le potenzialità che si aprono a chi scrive al tempo del web 3.0 e del “tutto culturale”. Chi meglio dei “nuovi entrati” nel sistema letterario italiano può rispondere a dieci domande sulla scrittura e le sue forme nell’Italia degli anni Dieci?
1) L’enorme quantità di libri che oggi invadono le nostre librerie mette a dura prova le capacità di “resistenza” delle opere di valore che si affacciano sul mercato. Secondo te, dovrebbe essere compito del “sistema” trovare un nuovo rigore nel filtrare più attentamente le candidature di giovani autori, o spetta piuttosto a chi scrive una maggiore responsabilità, una sorta di autocensura da mantenere fino a che la propria scrittura non abbia raggiunto un giusto livello di maturazione?
Credo che l’enorme quantità di libri che si producono oggi non faccia che rimarcare la capacità di resistenza delle opere di valore. Se sono veramente tali, sopravviveranno a qualsiasi invasione. Dal «sistema» non mi aspetto nulla. Sono un individualista, e il valore e la disciplina sussistono solo nell’individuo, quindi nel singolo scrittore. Stessa cosa per l’autocensura. È la sola che io riesca a contemplare. Quanto al valore di un’opera letteraria, ahimé non sono i lettori contemporanei a stabilirlo. Sopravvivono al proprio secolo solo le opere che vengono studiate. Ricordo ventisei lezioni universitarie tenute da Andrea Gareffi per capire con noi studenti se il signor Buda, personaggio di Giorgio Bassani, sia effettivamente morto presso l’hotel Tripoli.
2) Gli spazi della scrittura sono oggi moltiplicati a dismisura, in rete e non solo: credi che lo scrittore faccia bene a cercare di occuparli in maniera più massiccia possibile, o paga di più una strategia di discrezione, di scrittura mirata? In sostanza, esiste una “necessità” della scrittura in questo sistema che ha decuplicato le occasioni di parola?
Non mi viene da metterla sul piano del «sistema», parlerei invece di persone. Abbiamo tutti bisogno di poesia, di pensiero, di letteratura, perché poetico è il fondamento dell’essere umano. Ma questo principalmente porta al bisogno di lettura. Quella della scrittura, per taluni individui, è una mera questione di abitudine, qual è quella di esprimersi. Invece in Italia oggi si scrive per molte ragioni diverse. C’è chi scatena le sue ansie nell’alcol e chi nella scrittura. Di fronte a un autore, a alcuni di noi viene facile riconoscere la mano di una persona abituata a esprimersi, e ad apprezzarla per questo. Altri di noi, con incauto coraggio, pensano invece «se lo fa lui posso farlo anch’io». Per me la lettura avviene nella discrezione; la scrittura la segue in conseguenza. E poi, cosa intendi per «paga di più»? Dipende cosa si vuole ottenere scrivendo. Io mi limito a osservare la realtà, forse a mischiarne le carte. Provo a inserire in quella che mi pare una lacuna il tassello che si credeva andasse inserito altrove. La fama, i soldi (quando vengono) non sono una consolazione, direbbe Dagerman. Contano qualcosa solo se ti aiutano a essere un po’ più libero entro le forme della società. Ma lì la libertà la cerca l’uomo, ed è una cosa sacra; la persona che gli vive dentro e lo fa scrivere se ne frega.
3) Qual è la tua posizione di fronte alla dimensione virtuale del sistema culturale? Trovi che l’esplosione di pareri e idee sia fruttuoso? Pensi che la critica possa trovare in questa situazione le premesse per tornare a orientare scelte e gusti?
Il problema del virtuale non è la sua supposta mancanza di realtà, ma la sua mancanza di virtù. La prima virtù della lettura e della scrittura è la lentezza, la filologia, il dono di tempo e di attenzione che un lettore o uno scrittore fa a sé e agli altri. Il cosiddetto virtuale gode di velocità, che è invece la virtù dei pensieri. Perciò non intendo demonizzare il virtuale. Dico però che non è l’ambiente adatto alla concentrazione, al raccoglimento di quegli stessi pensieri.
Quanto ai critici italiani, quelli che oggi producono libri fanno ridere i polli. È un mondo pieno di gelosie, di invidie, malelingue. In genere preferisco confrontarmi con gli studiosi di letteratura, persone come Giona Tuccini, che ovviamente nessuno conosce. È espatriato perché la sua critica dell’Italia non entra certo in due colonnine di giornale. Poi non vorrei più sentire parlare di scelte e gusti, ne sono sazio. Non scegliamo nulla. Certi libri ti cadono addosso dagli scaffali delle biblioteche, altri te li mettono in tasca quando esci dalle librerie. Altri ancora ti vengono prestati dagli amici oppure li trovi sull’ultimo vagone della metropolitana. Uno di noi nasce in una casa piena di libri, altri nascono tra persone che non sanno mettere due parole in fila. La fortuna di un ragazzo destinato alla scrittura, come vedi, è appesa al filo della più semplice casualità. E poi «i gusti» mi disgustano. Non è a uno scrittore che si chiedono certe cose, forse a un sociologo della letteratura ma mi viene il mughetto solo a nominarlo.
4) Credi sia ancora possibile pensare a un vincolo che leghi la scrittura all’impegno civile?
La scrittura richiede impegno. Uno scrittore è sempre impegnato, e l’impegno è sempre civile se parliamo di libri scritti da uomini. Esistono artisti maggiori e artisti minori, tutto qui. Non mi piacciono i partigiani. Sono solo una categoria di saputelli ben protetta. In ambito intellettuale, tutte le forme di difesa delle cose sono stupide. Gli intellettuali non fanno che infamare il pensiero da centocinquanta anni a questa parte.
5) Scrivere è il tuo lavoro? Se sì, in che forme? Se no, come riesci a coniugare il tuo lavoro con la scrittura?
Con la pubblicazione di Elisabeth ho vissuto bene per circa un anno e mezzo (conduco uno stile di vita modesto, che basta poco a alimentare). Ho potuto scrivere quel romanzo perché scrivo da sempre e perché sul piano materiale sono sempre stato mantenuto da mia madre. Oggi vorrei avere una famiglia mia. Avendo trovato la compagna giusta, soffro l’impossibilità di mettere al mondo dei figli, perché non ho abbastanza soldi. Fortunatamente mi aiutano a campare le traduzioni che faccio e i Parson Jack Russell che allevo. Per scrivere si deve dedicare la vita, ogni minuto, senza riserve. So di persone che riescono a coniugare il lavoro di scrivere con la fatica di una seconda professione, ma nella maggioranza dei casi non stimo le loro opere. Salverei del recente passato solo Erri De Luca e oggi Sandro Bonvissuto.
6) Quando scrivi, un racconto o un romanzo, che genere di lettore ti immagini? E come cerchi di raggiungerlo?
Immagino un lettore abbastanza simile a me da leggere opere che complicano la vita, che accetti quindi di porsi una o due domande in più. Poi lo immagino abbastanza diverso da me da accettare il suggerimento di una o due risposte.
7) Tra scrittori e critici c’è una forte vicinanza, spesso dovuta a motivi d’amicizia, spesso ad affinità intellettuali; c’è un critico capace oggi di leggere meglio degli altri le evoluzioni e le implicazioni della produzione letteraria italiana?
No, non mi sembra. Io ho un amico che fa il critico, si chiama Andrea Caterini. Sono legato a lui, e gli voglio bene come a un fratello, ma a parte qualche periodo felice qua e là nei suoi libri, non capisco a cosa serva il suo lavoro, come sia possibile che lo porti avanti né dove vada a parare. Non avverto questa vicinanza tra scrittori e critici. Se siamo d’accordo sul fatto che un vero scrittore sia ad esempio Moresco, non vedo un solo critico che gli sia mai stato davvero «vicino». Forse esiste, e Moresco lo conosce, ma io non l’ho mai letto. Più probabile è che sia la prossima generazione a discuterne.
8) Se guardi all’attuale situazione letteraria italiana, ti sembra che si possa parlare di poetiche, di modelli preminenti, o invece prevale un sistema puntiforme dove ognuno costruisce il suo percorso in maniera indipendente rispetto agli altri colleghi, anche se amici o affini?
A parte il dilagare di quello che io chiamo “realismo moralista” (spinoso e spontaneo come l’ortica) non vedo poetiche di sorta. Distinguo meglio la presenza di un sistema puntiforme. A me piacciono molto Fleur Jaeggy e Michele Mari, per dirne un paio. Come posso trovare interessante, e coerente, l’insieme del «panorama» letterario italiano?
9) Credi che la tradizione letteraria italiana, e in particolare quella romanzesca, soffra ancora del provincialismo che tanto spesso le è stato imputato? Quando scrivi hai come riferimento autori appartenuti al nostro passato e scrittori che hanno vissuto in altri luoghi?
Credo che il tipo italiano sia profondamente, terribilmente e irrimediabilmente provinciale in tutte le sue manifestazioni, non solo letterarie. Me compreso, troppo spesso.
Quanto ai modelli, non penso ad alcuno che non siano i miei personaggi.
10) Se potessi essere un personaggio letterario, chi ti piacerebbe essere?
Ismaele, di Moby Dick.
Paolo Sortino è nato a Roma nel 1982. Vive a Rocca di Papa, dalle parti di Roma. Nel 2011 ha pubblicato il suo primo romanzo, Elisabeth (Einaudi).
Precedenti puntate di Dieci per Dieci:
13/06/2013 – Giorgio Fontana
20/06/2013 – Gabriele Dadati
27/06/2013 – Alessandro Raveggi
04/07/2013 – Giusi Marchetta
11/07/2013 – Gabriele Ferraresi