La moltiplicazione di imprese editoriali piccole e piccolissime; la discutibile politica degli “esordienti” – arrivata quasi a codificare un sottogenere letterario; la relativa facilità di accesso al sistema editoriale; l’esplosione di festival, rassegne e saloni come principale mezzo per rendere attraente e vendibile il mondo dei libri; i social network e la blogosfera letteraria; la trasformazione della figura dell’intellettuale; la discussione su nuove e vecchie categorie teoriche come tentativo di rilanciare una riflessione critica sulla scrittura…
Tanti sono i problemi e altrettante le potenzialità che si aprono a chi scrive al tempo del web 3.0 e del “tutto culturale”. Chi meglio dei “nuovi entrati” nel sistema letterario italiano può rispondere a dieci domande sulla scrittura e le sue forme nell’Italia degli anni Dieci?
1) L’enorme quantità di libri che oggi invadono le nostre librerie mette a dura prova le capacità di “resistenza” delle opere di valore che si affacciano sul mercato. Secondo te, dovrebbe essere compito del “sistema” trovare un nuovo rigore nel filtrare più attentamente le candidature di giovani autori, o spetta piuttosto a chi scrive una maggiore responsabilità, una sorta di autocensura da mantenere fino a che la propria scrittura non abbia raggiunto un giusto livello di maturazione?
Mi pare di poter dire che negli ultimi vent’anni – con picchi massimi e forse irrimediabili negli ultimi cinque – la maggior parte delle case editrici italiane abbiano quasi totalmente modificato le traiettorie decisionali, all’insegna di criteri quali la leggibilità a ogni costo, il sentimento a ogni costo, il medio a ogni costo.
Solo poco più di trent’anni fa, entrava in classifica Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino; questo oggi sarebbe impossibile perché quel libro non sarebbe pubblicato, oppure lo sarebbe da piccolissimi editori, e quindi, loro malgrado, con una tiratura bassa, e una presenza in libreria minima, seppellita sotto pile polverose di libri risibili.
Lo dico davvero senza snobismi, e per esempio a mia volta leggo con piacere libri di intrattenimento o di varia, e credo che siano anche questi necessari, ma se emergesse che un intero sistema, non di concerto ma per automatismo, negasse l’accesso alla pubblicazione a voci nuove e originali, sarebbe letale, non solo per l’autore, ma per il lettore, e per la lettura.
Prova a rigettare le Operette Morali, oppure, che so, l’Hilarotragoedia di Manganelli. O Zona di Mathias Énard, opera fondamentale dei nostri tempi, e pubblicata in Italia da Rizzoli. Cosa rimane?
La conseguenza di una produzione ampiamente superficiale non può essere che questa: non si creano lettori, ma solo acquirenti occasionali. Non si tratta di educare il lettore, ma di crearsi – semplicemente a livello imprenditoriale – un tessuto di acquirenti fedeli o fedelissimi che si fida di te. Che sa che uscirà arricchito da una passeggiata in libreria, o una virtuale su Amazon.
Nel 2011 abbiamo perso 700.000 lettori, e molti sono lettori forti: è vero che c’è la crisi, ma vuol dire soprattutto che, forse, questi ultimi si sono stancati della produzione, e magari stanno rileggendo lo Zibaldone.
Possiamo ancora leggere grandi autori, anche contemporanei. Ma gli editori devono crederci: per loro, oggi, invece, la strada è impervia. Magari arrivi alla pubblicazione, ma in pochi ti danno spazio per crescere.
2) Gli spazi della scrittura sono oggi moltiplicati a dismisura, in rete e non solo: credi che lo scrittore faccia bene a cercare di occuparli in maniera più massiccia possibile, o paga di più una strategia di discrezione, di scrittura mirata? In sostanza, esiste una “necessità” della scrittura in questo sistema che ha decuplicato le occasioni di parola?
Non credo che valga la pena elaborare strategie; credo che su alcuni luoghi vada assolutamente la pena esserci, se si ha qualcosa da dire (basti pensare a Doppiozero, minima&moralia, Nuovi Argomenti, Nazione Indiana); tra l’altro le sedi per scrivere sulla vecchia stampa sono ridottissime, quasi inaccessibili.
Peraltro, a volte si rivela più funzionale pubblicare un intervento su un blog letterario piuttosto che sulla pagina culturale dei grandi giornali. Ricordo dei dati di circa 5 anni fa che mi sconvolsero: i veri lettori della pagina culturale del più importante quotidiano italiano erano di poco sopra il migliaio.
Per quanto riguarda invece i social, non credo siano rilevanti da questo punto di vista. Io sono iscritto a Facebook, e credo che la mia presenza lì, in quanto scrittore, non porta che a far sapere a qualcuno che esisto, non memorabilmente però. Dunque, nella maggior parte dei casi, esisto per un frammento di tempo, un istante, e sono per altro unidimensionale, quindi davvero dimenticabilissimo. È vero, puoi scrivere cose brillanti, ma scrivi senza immersione, direttamente per un pubblico, che però non assiste.
3) Qual è la tua posizione di fronte alla dimensione virtuale del sistema culturale? Trovi che l’esplosione di pareri e idee sia fruttuoso? Pensi che la critica possa trovare in questa situazione le premesse per tornare a orientare scelte e gusti?
Ha, come molte cose, dei pro e dei contro; se vi è un luogo autorevole e serio l’esplosione di pareri e idee è certamente fruttuoso.
4) Credi sia ancora possibile pensare a un vincolo che leghi la scrittura all’impegno civile?
È un tema molto intricato. Non sono tempi civili, e questo, paradossalmente, non facilita la letteratura civile. Anche la storia non la facilita. Mi pare sgretolata, pulviscolare, fulminea. E quindi mi viene da chiedere cosa sia oggi il civile. Mi pare che la risposta sia molto complicata; si poggia forse sulle storie singole, sulle vicende private che diventano pubbliche, sulle vicende raccontate ai ragazzi, ma – credo – che oggi più che mai il civile necessiti esplosioni linguistiche, letterarie. Un esperimento interessante per esempio è quello di In territorio nemico, uscito per Minimum Fax, un’opera collettiva che ha coinvolto 115 scrittori. Hanno raccontato la Resistenza, inevitabilmente: è tutto ciò che ci rimane.
5) Scrivere è il tuo lavoro? Se sì, in che forme? Se no, come riesci a coniugare il tuo lavoro con la scrittura?
Il testo è il mio lavoro. Questo organismo vivente, pluricellulare. Di giorno lavoro come editor di saggistica presso il Saggiatore. Qui il lavoro sul testo non è solo sui libri degli altri, ma nell’organizzazione di un mondo: esplorare direzioni, tentare di generare universi simbolici per poi abbatterli. Lavorare sul catalogo della casa editrice è come lavorare alla struttura di una propria opera.
Alla sera scrivo i miei libri, e il fine settimana, ovviamente. Si tratta di solito di immersioni totali: il testo è già gonfio dentro di te, e rischi di esplodere.
Quando riesco collaboro con testate come, qualche volta, con Il, il mensile del Sole 24 Ore.
6) Quando scrivi, un racconto o un romanzo, che genere di lettore ti immagini? E come cerchi di raggiungerlo?
Scrivere davvero è un’esperienza immersiva, un momento in cui lo scrittore si trova solo con se stesso; sa perfettamente cosa succederà ma, allo stesso tempo, non ne sa nulla. Non si può pensare a un lettore in quel momento. Nell’ultimo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, Fratto X, c’è un frammento formidabile che si conclude con Rezza che guarda uno spettatore e dice: «Lo spettatore è l’anello debole della catena». Non è mera provocazione. Carmelo Bene, come si sa, frequentava la di-scrittura scenica. Scrivere, di-scrivere: quando vi è l’ambizione di fare opera non c’è ricettore, ma c’è. Non può contaminare l’atto creativo la presenza dell’altro. Epperò, ovviamente, è necessaria, a posteriori, la sua presenza, e non solo: salvifica.
Su un altro fronte, che percorre i cicli storici, pensiamo a Dante, quando scriveva la Commedia. Pensiamo al pubblico a lui contemporaneo. E pensiamo a tutto ciò che successe dopo. Per secoli fu considerata un’opera barbara. Oggi – dopo Foscolo, De Sanctis, eccetera – la leggiamo tra i banchi di scuola. Chi è il lettore di quell’opera per il suo autore? E l’opera?
7) Tra scrittori e critici c’è una forte vicinanza, spesso dovuta a motivi d’amicizia, spesso ad affinità intellettuali; c’è un critico capace oggi di leggere meglio degli altri le evoluzioni e le implicazioni della produzione letteraria italiana?
Come detto, sui giornali cartacei gli spazi sono sempre più ridotti, quasi nulli, e non sempre in rete si producono interventi strutturati (salvo eccezioni, come, per esempio, quelle succitate). Inoltre, anche le case editrici sempre più faticano a trovare spazio per opere di critica letteraria che approfondiscano il presente o il futuro prossimo. Ho molto apprezzato, però, Senza trauma di Daniele Giglioli.
8) Se guardi all’attuale situazione letteraria italiana, ti sembra che si possa parlare di poetiche, di modelli preminenti, o invece prevale un sistema puntiforme dove ognuno costruisce il suo percorso in maniera indipendente rispetto agli altri colleghi, anche se amici o affini?
Mi pare che la poetica preminente sia quella delle storie a tutti i costi, ovunque. Una pasticceria di Milano molto in voga ha come motto, vado a memoria, “Ogni volta che la porta si apre, entra una storia”. È come se questo modello sia il pilastro della letteratura contemporanea. O almeno di quella legittimata, quella che non deve sgomitare per essere letta. E poi la verità è che oggi tutti rischiano di non essere letti.
9) Credi che la tradizione letteraria italiana, e in particolare quella romanzesca, soffra ancora del provincialismo che tanto spesso le è stato imputato? Quando scrivi hai come riferimento autori appartenuti al nostro passato e scrittori che hanno vissuto in altri luoghi?
Questa domanda si ricollega alla precedente, ed è l’altra faccia della medaglia.
Io no, non lo credo: anzi, i nostri migliori giovani scrittori vanno ben oltre il provincialismo; c’è una batteria di giovani scrittori (quando parlo di giovani, intendo giovani editorialmente) che intendono approfondire fenomeni umani fondamentali per tentare l’opera. Me ne vengono in mente almeno cinque: se si pensa alle loro opere vi sono il padre, la madre, il Male, il maestro, lo sgretolamento della storia. Nulla di provinciale.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda: no, quando scrivo non ho autori di riferimento; è chiaro che ho dei modelli (irraggiungibili), ma nell’atto della scrittura bisogna dimenticarseli.
10) Se potessi essere un personaggio letterario, chi ti piacerebbe essere?
Jacob von Gunten.
Andrea Gentile è nato a Isernia nel 1985. Il suo primo romanzo è L’impero familiare delle tenebre future (il Saggiatore, 2012).
Precedenti puntate di Dieci per Dieci:
13/06/2013 – Giorgio Fontana
20/06/2013 – Gabriele Dadati
27/06/2013 – Alessandro Raveggi
04/07/2013 – Giusi Marchetta
11/07/2013 – Gabriele Ferraresi
18/07/2013 – Paolo Sortino
25/07/2013 – Tommaso Giagni
12/09/2013 – Marco Montanaro