Nell’ultimo periodo mi è capitato di leggere “alcuni” libri di autori africani. In realtà ne ho letti due. In tutto. Però si trattava di due esordi, e questo mi ha spinto a pensare che non fosse del tutto inutile provare a trarre da quelle letture alcune riflessioni, a dispetto (o forse in virtù) della mia quasi totale ignoranza in materia di letteratura africana.
Ecco, probabilmente dovrei cominciare col dire che se un qualsiasi specialista di “cultural studies” leggesse questa mia excusatio non petita, mi farebbe subito notare che non è il caso di parlare di “letteratura africana”. Perché l’Africa è un continente, e nessuno si sogna mai di parlare della letteratura europea come di un’unica cosa. Piuttosto parliamo della letteratura italiana (tantissimo!), di quella francese (molto, soprattutto dopo Carrère), di quella spagnola, di quella tedesca, di quella inglese, o di quella dei paesi scandinavi (ma in questo caso siamo portati ad associare tutto solo per via dei libri di Iperborea…). E poi parliamo anche della letteratura americana, che per ragioni storiche, culturali e politiche contribuisce insieme alla letteratura europea a quel grande blocco che è la cultura occidentale. Tutto questo per dire, per chi già non lo sapesse, che noi occidentali abbiamo un grosso difetto, che è quello di leggere il planisfero mettendo al centro il nostro piccolo mondo, e di interpretare ciò che sta fuori dall’Occidente solo di riflesso alla nostra cultura, alla nostra civiltà, per quanto c’è di diverso e di simile, senza curarci troppo delle specificità dell’Altro (grande termine passepartout…). E quindi, che un autore scriva dal Kenya o dalla Nigeria, per noi fa poca differenza. Lo metteremo comunque nello scaffale delle scritture provenienti dalla periferia dell’impero, senza curarci di indagare di quale “periferia” si tratti, e soprattutto di quale impero…
Ecco, forte di tutti questi discorsi, mi sono avvicinato a due opere prime, recentemente pubblicate, che, durante la lettura, mi sono apparse decisamente vicine; e per alcuni aspetti, però, emblematicamente lontane. La prima è Un giorno scriverò di questo posto (66thA2nd) del kenyano (o keniota) Binyavanga Wainaina, scrittore classe 1971 che ha pensato bene di esordire con la propria autobiografia (prima si era dedicato per lo più a racconti e pamphlet). La seconda è invece Città aperta (Einaudi) di Teju Cole, scrittore e fotografo nato nel 1975 negli Stati Uniti da genitori nigeriani, cresciuto in Nigeria e attualmente residente a New York: la storia che racconta il suo libro è quella di Julius, giovane psichiatra di origini africane, personaggio di finzione ma con evidenti punti in comune con il suo “inventore”.
A prima vista i due libri sono molto differenti, l’uno biografico e l’altro finzionale, l’uno ambientato in Africa e l’altro tra New York e Bruxelles. C’è un elemento, tuttavia, che li rende paragonabili, ed è la dimensione del viaggio, dello spostamento nei luoghi e del loro riflettersi nelle coscienze dei personaggi protagonisti. Per Wainaina questo movimento consiste in un continuo attraversamento delle frontiere: prima la complicata mappatura degli spazi dell’infanzia e dell’adolescenza (la casa, la scuola, i cortili dove giocare con gli altri bambini), poi quelli del suo Kenya, le tante città (Nakuru, dov’è nato, la capitale Nairobi, le bidonville dappertutto) e le tante etnie che lo compongono, e infine di tutta l’Africa nera (il Sudafrica, dove Binyavanga va a fare l’università, il tormentato Uganda, da dove viene sua madre, il Togo dove viene inviato per un reportage). Ogni luogo è per lo scrittore l’oggetto di un’attenta osservazione, ma anche un elemento da mettere a reazione con le proprie idiosincrasie, con le paure e le certezze accumulate: in questo modo gli spazi si trasformano e assumono nuovi, inaspettati caratteri. E la lingua di Wainaina (impeccabilmente riprodotta da Giovanni Garbellini) si modella e si deforma, tra illuminazioni improvvise e profonde depressioni, per trasformare questi luoghi in paesaggi dell’anima. La vocazione alla scrittura nasce così, prima di tutto, come qualità dello sguardo, che la mano e la penna dovranno tradurre in un linguaggio comprensibile, “comunicabile”.
«È chiaro… così chiaro. Per tutto questo tempo, senza scrivere una parola, ho letto romanzi e osservato persone. Ho scritto quello che vedevo nella testa, ho dato forma alla realtà mettendola in un libro. È quello che ho sempre fatto, l’ho fatto così tanto e con tanta soddisfazione. Non ho mai usato una penna: l’ho fatto per una mia consolazione carnale. Se voglio crescere, devo fare qualcosa di simile per gli altri» (165-166).
Alla rapsodia spastica e impulsiva di Wainaina si contrappone quella pacata, ragionativa di Teju Cole. Il suo Julius è un tipo di flâneur contemporaneo che attraversa gli spazi per abbandonarvisi, per lasciare che siano questi a comporre le tessere di una narrazione: la sua postura è quella di chi si mette in ascolto e concede lo spazio della parola a storie che aspettano solo di essere depositate nell’archivio della memoria collettiva («Incredibile quante piccole storie la gente si portava dietro in ogni angolo della città», 163). Una postura, a pensarci bene, al quanto presuntuosa, dal momento che pretende che solo il protagonista-narratore sia dotato di un potere di “dare la parola” che invece è negato alla gente comune: come Saidu, giovane liberiano sopravvissuto a guerra e violenze, che non appena mette piede sul suolo americano e pensa di poter cominciare una nuova vita, viene arrestato; o come Farouq, commesso marocchino di un internet cafè di Bruxelles, la cui brillante carriera universitaria è stata troncata dall’ottusità occidentale davanti allo “straniero”. Di fronte a queste storie, però, Julius resta quasi sempre inerme. Per quanto le vicende altrui parlino di sofferenze, violenze, ingiustizie, di buchi neri dell’esperienza, non riescono mai a entrare in risonanza con la sua biografia, con la sua coscienza privata. E anche per questo il racconto non trova una forma diversa da quella discontinua e irregolare del camminare del protagonista.
Le ragioni dell’empatia, che rendono eccentrico e originale il racconto di Wainaina, lasciano il campo nel romanzo di Cole a quelle di un distacco e di una meditazione che maturano sotto le insegne del sapere: ogni storia, ogni incontro sono infatti mediati dall’enciclopedia culturale di Julius. Conoscenze storiche, nozioni di base delle più varie discipline, un’aneddotica che attinge a disparati campi del sapere: un intero blocco culturale viene chiamato a proteggere la biografia emotiva del protagonista (che emerge solo per brevi e non significativi accenni) ma, soprattutto, ad attribuire al mondo quel senso che spontaneamente non traspare. Di fronte al caos evocato dalle vicende minori e minime che Julius si trova ad ascoltare, il sapere, la cultura, la conoscenza appaiono come l’unico argine disponibile: ogni luogo visitato apre un capitolo di storia urbana e sociale, ma anche gli eventi, gli incontri ispirano analogie con momenti e passaggi della storia culturale. Il ché potrebbe anche rappresentare una felice soluzione all’annoso problema del rapporto tra individuo e mondo che assilla l’uomo contemporaneo, se solo alcune imperdonabili ingenuità (come: «Lì nella galleria tutta bianca, con la fila di immagini e il brusio della calca, mi resi conto che la fotografia era davvero un’arte incredibile»…) non lasciassero trasparire una sorta di ambizione interpretativa (o un’ansia performativa) da parte del personaggio. Un’ambizione che denuncia tutta la sua subalternità al sistema di pensiero che ha prodotto la cultura che egli vorrebbe usare come strumento ermeneutico: ovvero il pensiero occidentale.
All’alba del terzo millennio si potrebbe ingenuamente pensare che le nuove leve della letteratura africana (e mi si perdoni ancora una volta questa etichetta) possano ormai prescindere, almeno esplicitamente, da quei riferimenti al pensiero della differenza e al post-colonialismo che avevano invece caratterizzato le scritture dei loro padri. Un giorno scriverò di questo posto e Città aperta ci mostrano invece come la questione del rapporto Occidente-Oriente (dove, con Edward Said, si può far rientrare nell’Oriente tutto ciò che “non è Occidente”) sia ancora lontana dall’essere risolta. Tuttavia, le posizioni diametralmente opposte di Wainaina e Cole di fronte alla questione lasciano intravedere due differenti percorsi per affrontare la contraddizione.
Julius, protagonista di Città aperta, si sente straniero dappertutto: troppo chiara la sua pelle quando è in Nigeria, troppo scura quando è in America, quando si trova in Belgio può essere scambiato per un africano o per un americano, ma risulta in ogni caso un estraneo. La sua personale vicenda biografica potrebbe aprire il campo a lunghe e articolare riflessioni (beninteso, da svolgere narrativamente), sull’identità, sulle contaminazioni, sulle ragioni dell’appartenenza. E invece viene messa volontariamente in ombra: Julius lascia trapelare poco o nulla di sé all’esterno (le amicizie sembrano tutte precarie, per non parlare dei rapporti sentimentali); in alcune circostanze arriva addirittura a mentire sulla propria identità. Le sue reazioni più frequenti sono intonate a un distacco diffidente. Un distacco necessario a tacitare le voci che vengono dall’infanzia, dall’adolescenza, dai tormentati rapporti famigliari, e a far emergere al loro posto una voce non compromessa perché al di sopra delle parti: la voce del sapere. Un sapere indiretto, acquisito, selezionato, volontario. Quel sapere che fa sì che il ricordo della sepoltura del padre si confonda, nella memoria, con le raffigurazioni funerarie più celebri della storia della pittura moderna, come La sepoltura del conte di Orgaz di El Greco o Funerale a Ornans di Courbet. Quello che si presentava inizialmente come uno sguardo ibrido, ambiguo e per questo potenzialmente in grado d’innescare sinapsi eccentriche e originali, viene ridotto alla quintessenza dell’occidentalismo. La flânerie diventa allora un semplice pretesto per dare modo al narratore di esibire la perfetta padronanza di un codice predefinito, che non lascia alcuno spazio all’invenzione o all’immaginazione. Arrivati alla fine del libro abbiamo l’impressione che una promessa non sia stata mantenuta, ma soprattutto che l’autenticità abbia lasciato il campo al peggior spirito di emulazione.
Se per affrontare la questione dell’identità è necessario innanzitutto fare chiarezza sulle proprie origini, sul terreno in cui affondano le proprie radici (e in qualche modo sul concetto di “patria”), dopo aver letto Un giorno scriverò di questo posto si può sostenere che nascere in Kenya sia una sorta di sciagura. Il protagonista autobiografico mette in luce fin da subito le difficoltà che pone per un individuo nascere e crescere in un paese in cui ogni situazione (storica, geografica, sociale) richiede di utilizzare un lingua diversa (compresa quella dei vecchi colonizzatori), in cui ogni presidente si sente rappresentante innanzitutto della propria etnia, più che della propria nazione. La questione identitaria nasce e si mostra in maniera più evidente a livello linguistico, ma tocca nel profondo tutta la complessità storica e antropologica di un paese multiforme e diviso, che in alcuni momenti acquista la conformazione di un luogo utopico, impossibile: «Non sappiamo cosa vuol dire venire da due nazioni: casa-casa (casa al quadrato, la chiamiamo noi, il tuo clan, casa tua, la tua nazione d’origine) e la casa lontano da casa – la casa del futuro, un posto che ancora non c’è chiamato Kenya» (60).
Tanto più Wainaina procede nel proprio racconto, tanto più forte sembra montare il risentimento e il desiderio di distacco nei confronti di un paese incapace di abbandonare faide e fazioni, odi e rancori, conflittualità e meschinerie. Un risentimento che resiste anche ai facili entusiasmi suscitati nel giovane Binyavanga dalla lettura di Decolonising the Mind (1986) di Ngũgĩ wa Thiong’o, figura cardine del pensiero post-coloniale kenyano («Sarò fico e decolonizzato»): neanche il campo della riflessione intellettuale sembra immune dalla schizofrenia tipica di questo paese («Perfino Ngũgĩ ora è in America»). Al momento di partire per il Sudafrica, Wainaina sembra aver deciso definitivamente di recidere il proprio cordone ombelicale: «che il Kenya vada a farsi fottere» (110).
Tuttavia, l’esperienza dell’esterno, di un mondo fuori dal Kenya, di un Sudafrica in cui la lotta contro l’apartheid si radica paradossalmente in una società retta ancora da pregiudizi e antiche credenze, porta Wainaina a riconsiderare la propria posizione: l’eterogeneità, la contraddizione, il conflitto sono caratteri propri del Kenya e delle sue persone. L’identità tanto agognata non può essere appannaggio di una sola delle tante etnie che compongono la nazione, così come non potrà essere definita dall’utopico (o distopico) sogno di autonomia dal colonizzatore occidentale. “Un giorno scriverò di questo posto”: è questa la sfida più difficile, perché significa prendere atto della diversità e della molteplicità, fare i conti con le stratificazioni antropologiche e culturali che definiscono oggi l’identità del Kenya. Un’identità inclusiva e non esclusiva, dove anche l’assimilazione della cultura pop occidentale, prima simbolo di una cieca subordinazione dell’immaginario, diventi un segno di appropriazione, di contaminazione eccentrica.
È solo a queste condizioni che Binyavanga Wainaina può dare un senso al proprio ruolo di scrittore: il linguaggio torna a essere quello strumento che da bambino gli permetteva di circondare l’esperienza, di rendere reale ciò che apparteneva solo alle sensazioni, alle emozioni, ai ricordi. «Le parole devono circondare l’esperienza, come l’aspirapolvere nuovo di mamma, devono risucchiare tutto e renderlo reale» (62). Rendere reale ciò che ancora non esiste: con l’età adulta i criteri sono rimasti gli stessi, ma la posta in palio si è alzata. Wainaina s’incarica di tradurre in una storia, la sua, un posto e un mondo che devono ancora conquistare la propria cittadinanza. Una scrittura della differenza, forse. Sicuramente una scrittura differente dalle altre.
«Sapevamo dall’inizio di poter esistere, noi kenioti, anche se non ci crediamo ancora fino in fondo».
Binyavanga Wainaina, Un giorno scriverò di questo posto (2011), 66thA2nd, Roma 2013, pp. 292, 18€
Teju Cole, Città aperta (2011), Einaudi, Torino 2013, pp. 280, 17,50€