gabo

di Carolina Crespi

L’ultima volta che mi sono sentita così sola è stato circa cent’anni fa. Seduta al tavolo laccato di un negozio di cucine, guardavo un po’ Aureliano gattonare sul piastrellato di cotto e un po’ l’alluce smaltato di Ursula Binetti. Mia madre e mio padre discutevano sulla possibilità di infilare i rubinetti nel muro, la signora Ursula Binetti diceva che no, che si usava il rubinetto a collo di cicogna che saliva direttamente dalla ceramica del lavandino, alto e affusolato da bordello belle époque. Ursula era grassa, feticista, ma sapeva interpretare lo spirito del tempo.

Restammo nel negozio di cucine cinque giorni e cinque notti. Il terzo giorno nacque un pipistrello plumbeo, in un angolo della vetrina appena sotto l’aggancio della saracinesca. Il quinto giorno, di prima mattina, i piccoli e fitti foruncoletti cosparsi a raggiera sul viso di Ursula cominciarono a sanguinare: per mio padre fu il segnale che la donna aveva cominciato a invecchiare. Optò per i rubinetti a cicogna, prese mia madre per mano, in braccio mio fratello, e uscì al secondo tentativo dalla porta di servizio, sprecando il primo a rimbalzare contro la zanzariera.

Ursula mi guardò, mi diede un succo di frutta e scese nel seminterrato a preparare gli imballaggi. Rimasi sola. Passarono cent’anni. Un pomeriggio mio padre tornò a prendere i rubinetti a cicogna. Per mano, al posto di mia madre, teneva Pilar: un donnino bronzeo, scolpito dalla luce, abbigliato alla moda del secolo passato. Erano entrambi supponenti e parlavano un linguaggio datato. Volevano i rubinetti, volevano pagarli con le banconote di un secolo prima. Ursula li aveva venduti, disse che non si usavano più, che la cicogna era antiquariato, che adesso andavano i miscelatori e i soffioni. Guardavo mio padre e Pilar dal tavolo della cucina, si attorcigliavano ciascuno sul suo piede, erano indecisi. Pensai ad Aureliano, a quale avrebbe preferito. Poi scesi dalla sedia e uscii dal negozio di cucine. Qualche anno dopo mio padre si sarebbe pentito di aver optato per i miscelatori.

                                                     [A Gabriel Garcia Marquez, che mi ha iniziato alla confusione e alla memoria]

Scrive Franco Moretti[1] nel suo saggio dedicato alla forma epica a proposito del real maravilloso: «Non una poetica. Un dato di fatto». La complessità del reale viene naturalizzata e, come accade con tutto ciò che dopo essere stato a lungo pensato finalmente avviene, semplificata. L’azione, la drammaturgia oggettuale di Marquez semplifica il pensiero che l’ha partorita. Accumula certo, ripete modulando le stesse dinamiche, enumera, si prende gioco dell’uomo con l’uomo. Ma non c’è niente di astratto in Cent’anni di solitudine perché non esistono ragioni oggettive per una guerra. La guerra è nell’uomo e nelle cose e Marquez ce la racconta, ce la cambia, ci rifila un sacco di balle, il confine tra storia e invenzione va a farsi benedire. Ma non c’è niente da capire. L’Inquisizione leva di mezzo il romanzo? Al Sud America non restano che l’epica, l’imperfetto e il mondo informe da compiangere e ricordare per la sua bellezza. La vita è temporale e le generazioni eterne? Futuro, passato, e ancora futuro così che il futuro incalzi il presente e in esso il germini il seme della fine.

Infine, l’incomprensione. Abituati al geocentrismo del romanzo occidentale, la periferia da cui i personaggi di Marquez narrano la propria vicenda appare a tratti incomprensibile. Nessuna voce si distingue dalle altre e il punto di vista oggettivo, così distante dall’Europa ideologica del mo’ ti dico come la penso, imperversa. E così Cent’anni di solitudine, il romanzo del ‘68, diventa il romanzo senza ideologia, motore inconsapevole che spazza via la noia e accende nuovamente la fiducia del lettore nel racconto.

In esso le digressioni sono interferenze, spostano in modo determinante il peso degli eventi ora qui, ora lì senza una logica apparente. M(ac)ondo incorpora popoli, eserciti, carovane e, come una pasta frolla mai pronta alla ricerca del giallo perfetto, a furia di incorporare il simile e il diverso finisce per battere la testa e trasformarsi in un’asservita repubblica delle banane. È il mito – non l’ideologia – l’arma con cui Marquez resiste al disincanto della modernizzazione, sia essa fatta con l’astrolabio, la sollevazione armata o la levitazione: il mito libera l’evento dalla briglia aristotelica della causalità e la restituisce compatta e archetipica, informe dunque sempre potenziale.

Con Marquez muore lo scrittore che ha riportato la magia al centro del tempo: è il futuro a essere magico, il passato lo è stato a suo tempo. Ci restano i suoi libri, liberati dal tempo, dove capire, ricordare non è così importante; basta avere fiducia di ciò che resta dopo averli letti: l’incanto che il confine temporale o geografico, umano o generazionale sia qualcosa di superfluo e a conti fatti ininfluente al motore degli eventi.

 

[1]    F. Moretti, Opere Mondo, Einaudi, 1994.