Tutti conoscono l’unicità del linguaggio di Wes Anderson. Gli aggettivi peculiare, particolare, diverso, prezioso, speciale sono difficilmente evitabili nel tentativo di descrivere una sua pellicola. Ogni fotogramma o movimento di camera sono un concentrato di maniera, arte, raffinatezza spesso fine a sé stessa, che rendono la visione di un suo film un evento quasi straniante. Il cinema di Anderson sembra viaggiare per rotte solitarie, incurante di gusti e tendenze, ma forse solo in apparenza. La sua estetica in bilico tra gioco e rigore ha infatti ultimamente raccolto un consenso più ampio tra gli spettatori, fino ad interessare un mondo, quello vasto e indefinito della cosiddetta cultura indie, che lo ha eletto a suo colorato paladino. Il rischio di questo processo è ovviamente quello di smarrire il confine tra poetica e moda, in un mondo dove la cifra stilistica può spesso assicurare un ritorno economico quando mancano le idee. I titoli di testa dei film di Anderson, vere e proprie composizioni artistiche e divertissements per illustratori, sono ormai una firma riconosciuta e amata, un codice che introduce al suo piccolo mondo di diorami e di personaggi che si muovono sulla scena con la precisione meccanica di un orologio a cucù. Grand Budapest Hotel, ultima fatica del regista, sembra così far semplicemente ripartire gli ingranaggi di un carillon di cui conosciamo già la melodia, senza molte sorprese, ma con quella sensazione confortante delle atmosfere familiari. Eppure qualcosa è cambiato, il passaggio è impercettibile, le tracce sono disseminate come polvere ovunque e solo la dedica finale ce ne svelerà il senso, profondo e inaspettato.
Ambientata in un lussuoso Hotel incastonato tra i monti di una fantasiosa repubblica dell’est Europa, la storia ha come protagonista il concierge Gustave H e il suo fidato collaboratore Zero Moustafa. I due saranno coinvolti nella misteriosa scomparsa di un prezioso dipinto appartenuto a un’affezionata cliente dell’Hotel, la quale, alla sua morte, lascia l’opera d’arte proprio al suo amato portiere.
Il film è un susseguirsi di azione e colpi di scena, in un ritmo a tratti frenetico, ma mai fuori controllo. Il cast è, come sempre nei film di Anderson, una sfilata di stelle di primo livello, tutte collocate ordinatamente nei loro ruoli, dal cameo fino al protagonista. Sembra quasi che ai film del regista americano, le star di Hollywood ci si dedichino con un divertimento genuino, quasi fosse una festa, una sospensione dal loro infernale reincarnarsi in personaggi da botteghino, per finalmente partecipare al nuovo canovaccio di Anderson, felici come elementi di una banda di paese: persino chi è ai piatti porta il suo contributo. Ma conosciamo già lo spartito, l’incanto permane e allo stesso tempo ne avvertiamo l’affievolirsi. Innegabile la maestria con la quale vengono trattati temi sempre attuali come la guerra, l’assurdità dei confini politici, le discriminazioni razziali, senza perdere mai il tono leggero da commedia, eppure non basta per comprendere le ragioni di questo ennesimo viaggio nel mondo personale di Wes Anderson. A sciogliere i nostri dubbi, ecco che giunge la dedica finale: a Stefan Zweig.
Tutto all’improvviso si fa chiaro, semplice, quasi commovente. Un’opera così cesellata, dalla finezza e dalle atmosfere mitteleuropee, non poteva che rifarsi a questo romanziere di inizio novecento, troppo rapidamente dimenticato dopo la sua tragica morte. Caso eccezionale quello dello scrittore austriaco, autore prolifico e dal successo mondiale (le sue opere vennero tradotte in cinquanta lingue), egli può essere considerato il primo autore di bestseller dell’età contemporanea, le avventure da lui descritte spaziavano dai viaggi in terre esotiche ai drammi più sottilmente psicologici, e i suoi protagonisti, come ci ricorda Silvia Montis nell’introduzione a una delle sue raccolte, erano “eroi involontari a confronto con un interrogativo epocale, sui quali si è abbattuto il pesante sigillo della Storia”, proprio come i due protagonisti di Grand Budapest Hotel, semplici inservienti nella bufera dei mutamenti geopolitici. Ma la vicinanza di Anderson allo scrittore austriaco è ben più profonda, di natura stilistica; assistiamo infatti a un evento sensazionale: la traduzione perfetta di un linguaggio letterario nel suo omologo cinematografico. Perché se i film di Anderson appaiono come giochi dal meccanismo perfetto, essenziali e impreziositi dalla cura del dettaglio, sempre la Montis ci ricorda che Zweig era “un cultore della rinuncia, dell’editing a levare anziché a irrobustire, del dettaglio fatale nascosto in un umile aggettivo anziché esplorato in un passaggio auto compiaciuto. Distillava, tagliava, asciugava: il movimento era sempre mirato. Il racconto, un congegno a orologeria”.
Wes Anderson, dunque, con questa dedica, svela molto più di quanto si possa pensare. L’opera di Zweig non è una semplice ispirazione, ma un modello di poetica e di intenti, quasi il regista americano volesse seguire persino la stessa sorte dell’autore austriaco, spazzato via dalla storia della letteratura contemporanea, colpevole di intransigenza formale.
Grand Budapest Hotel (Stati Uniti 2014 commedia, drammatico 99′) di Wes Anderson con Ralph Fiennes, Tony Revolori, Saoirse Ronan, Bill Murray, Edward Norton, F. Murray Abraham, Harvey Keitel, Jude Law, Tilda Swinton, Jason Schwartzman, Willem Dafoe. Léa Seydoux, Owen Wilson, Adrien Brody