sulla torre

di Massimo Cotugno

“Non è assurdo? Voglio dire, se tanto sanno che devono morire, perchè faticano così tanto?”
“Loro vogliono tornare nel posto dove sono nati”.

Departure, di Yojiro Takita

Dei movimenti migratori, oscillatori, rotatori, rivoluzionari dei giovani italiani in fuga dalla paludosa Italia, se ne discute da anni. L’acuirsi della crisi e della consapevolezza di un futuro da inventare, ha di certo trasformato una semplice tendenza in un fenomeno molto più vasto, affrontato ogni giorno da media e opinione pubblica, a volte scivolando nel cliché e nella retorica, con uno sguardo unicamente rivolto alle cause politico/economiche, e finendo col lasciare sullo sfondo i protagonisti, questi migranti un po’ genio e un po’ sregolatezza ridotti a ombre indistinte, numeri affogati in un susseguirsi di statistiche che spesso trascurano un dato, forse tra i più interessanti: quello dei ritornanti.

Il numero è consistente: su 14.000 giovani laureati italiani che lasciano la penisola ogni anno, circa 4000 rientrano. I motivi sono numerosi, dal termine naturale del soggiorno all’estero, al completamento di un progetto, passando, perché no, da un conto in rosso e dalle tasche vuote. Vale la pena, però, approfondire il tema, perché dietro alle solite selve di luoghi comuni, ci sono storie di ragazzi caparbi e volenterosi che risalgono la corrente per condividere il frutto delle loro esperienze nel paese dove sono nati.

Niente eroi o missionari, ma solo semplici italiani che compiono un nostos, un ritorno, e hanno tanto da raccontare.

A dare voce a questi piccoli Ulisse ci hanno pensato il nostro Goffredo d’Onofrio, già comparso sulla Balena Bianca nella parte del detrattore (contro la sua volontà) de La grande Bellezza di Sorrentino, e Carolina Lucchesini, torinese d’adozione e esperta in comunicazione, unendo le loro conoscenze e competenze per dare vita a un breve ma intenso documentario intitolato La strada di casa, che fin da subito ha suscitato l’interesse di addetti ai lavori e riviste specializzate come Wired, fino ad arrivare al grande schermo, alla serata finale di Lavori in corto al cinema Massimo di Torino.

Li ho incontrati per una breve intervista, in cui abbiamo potuto capire meglio il senso e il valore del loro progetto.

Partiamo dalla parola nostalgia, parola composta dal greco νόστος (ritorno) e άλγος (dolore). Le voci del vostro documentario sembrano contenere tutte questa nota, nella sua accezione più stoica che languida. E’ lecito parlare di un intento, nel vostro lavoro, di ridimensionamento del mito del giovane italiano figlio di un’idea astratta di Europa, che pialla ogni differenza culturale, per riscoprire invece una nuova e più autentica visione del migrante, ovvero di colui che parte per avere una chance in più, ma che, come tutti, sogna di mettere radici nei luoghi a lui più cari, abbandonandosi a un sentimento umanissimo, quanto epico, quello del ritorno a casa?

Goffredo: Non possiamo parlare per tutti coloro che partono, ovviamente. Ma le tre storie che abbiamo raccontato sono radicate nel territorio, eccome. L’Europa è solo un mezzo, un’opportunità per vivere l’Italia. La partenza è, in realtà, un investimento. Il rientro, o il tentativo di rientrare, la chance per mettere a frutto quell’investimento. L’epica è per coloro che decidono di intraprendere questo doppio viaggio, per coloro che ce la fanno, malgrado l’assenza di una rete, di un progetto politico che possa trasformare l’Italia nel “paese dove costruire il proprio futuro”, come dice Paolo nel reportage.

Da cosa nasce questo progetto?

Carolina: Dal bisogno di raccontare delle “permanenze” come metafora di partecipazione attiva e dal basso. Le storie di chi torna, e quindi di chi resta, sono la voce di una periferia che troppo spesso viene trascurata. Quella di chi si tira su le maniche e lavora sul territorio, per produrre valore, comunità e forme di economia sociale diverse da quelle che normalmente vengono proposte.

 Chi sono Carolina e Goffredo? Italiani di ritorno, italiani in fuga o  italiani della resistenza?

Goffredo: Direi italiani di resistenza. È importante uscire dalla propria alcova e andare a esplorare, conoscere quanto più possibile. Ma l’accumulo di competenze fine a se stesso non porta a nulla. Ecco perché, dopo un periodo all’estero, sono rientrato e, benché spesso tentato di fare la valigia, ho resistito perché come dice Serena nel nostro reportage “nel nostro paese si sta bene”. Ovviamente, qui non si parla di stereotipi. Del “ah, come si mangia bene in Italia” o del “ah che bei posti che abbiamo”. C’è molto, molto altro. È proiezione di futuro che diventa aria da respirare, terra da vivere, socialità, piazza, agorà comprensibile nella sua totalità. In Italia tutto questo è possibile. È possibile creare una narrazione comprensibile in tutti i suoi codici. Fuori è molto più complicato.

Carolina: Mi ritrovo in tutte e tre le tipologie. Sono stata un’italiana di ritorno, che spesso ha ancora voglia di fuggire e che resiste. Quello che voglio dire è che le contraddizioni macroscopiche del nostro paese spesso rendono la partecipazione al “bene comune” difficile. Ma proprio per questo non bisogna mollare e cercare di essere parte del cambiamento che vogliamo mettere in atto. Partecipando alla cosa pubblica, in tutti i sensi possibili.

Come avete scelto le storie da raccontare?

Goffredo: Siamo partiti dal blog di Serena Carta cervellidiritorno ospitato su Vita.it. Da lì, grazie al web, abbiamo trovato altre storie. E ci siamo mossi tra Torino, Napoli e Stoccolma. È incredibile vedere quante siano le storie come quella di Serena, appunto, di Paolo o di Vincenzo.
Carolina: è stata una ricerca appassionante. Che ci ha fatto scoprire pezzi di Italia che non conoscevamo. Poi abbiamo scelto le storie che ci sembravano più universali: Paolo, il ricercatore sognatore con i piedi per terra e i guanti da lavoro in mano. Vincenzo, il napoletano che da Londra decide di tornare per occuparsi della bellezza del suo Rione Sanità. E Serena, la giornalista che da dentro e fuori la rete ascolta, racconta e partecipa alle storie di chi vuole cambiare un po’ l’Italia.

Italiani all’estero: quanta c’è di retorico e quanto invece non si conosce del mondo e dei desideri dei giovani emigranti?

Carolina: Andare all’estero è fondamentale, restarci comprensibile. Nel nostro lavoro non c’è un messaggio “subliminale” che vuole convincere i cervelli in fuga a tornare. Chi parte può avere mille ragioni che riguardano sfere diverse: lavoro, sogni, affetti, disperazione. Quello che vogliamo dire è che andare all’estero deve essere una scelta, non una costrizione. Chi vuole tornare ha il diritto di farlo. Chi vuole vivere il Italia ha il diritto di guardare questo paese come un posto in cui si può ancora sognare un futuro, il proprio.

Goffredo: Di retorica ce n’è moltissima. Sia per quelli che vanno via, sia per quelli che restano. Per quelli che vanno via, la maggioranza, passa il messaggio che altrove è meglio. Che alterità necessariamente porta con sé uno status migliore. E allora si legge che Tizio va a Londra e fa fortuna, Caio va a Berlino e cura mostre d’arte invidiate da tutto il mondo. Ovvio che non può essere così per tutti, anzi. Stesso discorso per chi resta, per i nuovi “Zuckerberg” che nascono ogni mese in Italia neanche fossimo una Silicon Valley in erba e l’esasperazione di un modello – quello del self made man – che, quando funziona, è meraviglioso. Ma non è una cosa che, al momento, può considerarsi sistemica nel nostro Paese.

Che cosa pensate e sperate di ottenere con questo lavoro?

Carolina: La strada di casa è un urlo di speranza appassionato nei confronti dell’amata/odiata Italia. E anche nei confronti della nostra generazione alla quale abbiamo voluto dire che non tutto è perduto, che dobbiamo partecipare, essere coinvolti, produrre innovazione sociale partendo dai nostri territori. E che ci sono tantissime realtà che già lo fanno e che possono diventare esempi virtuosi da proporre alle istituzioni.

Goffredo: Accendere un riflettore su un tema altrettanto importante rispetto ai cervelli in fuga. È necessario, è vitale, è generazionale. Insomma, è politica nel senso greco del termine.

 Come vi siete trovati alle prese con il mezzo visivo? Il giornalismo ha più impatto se sotto forma di reportage, di inchiesta di ampio respiro, oppure nella vostra versione, quella del racconto icastico, breve ed intenso, incentrato su una storia particolare da cui dedurre universali vicende?

Goffredo: Ci siamo interrogati sul linguaggio: che cosa vogliamo raccontare e come? Il nostro obiettivo era quello di suggerire l’argomento, di aprire un dibattito e di presentarlo in modo più lucido e documentato possibile. Il formato, la scelta del video di qualità, del montaggio pulito, quasi cinematografico, è figlio di questo ragionamento. Stesso discorso per la durata: o hai i mezzi (anche economici) per girare un lungometraggio stile documentaristico, altrimenti è meglio puntare alla penetrazione anche online. Per questo 7 minuti come questi sono il formato adatto.

Carolina: La strada di casa voleva essere una porta aperta verso questo tema. L’inizio di un progetto, collettivo magari, attraverso il quale raccontare chi torna e chi resta. La scelta di questo formato era orientata a questo obiettivo: poche parole, chiare e d’impatto.