Milano dalle finestre dei bar (Marco Saya, 2013) è la seconda raccolta poetica di Luca Vaglio, che nel 2008 aveva esordito per Zona con La memoria della felicità. La raccolta si compone di 32 testi, a cui vanno aggiunte tre fotografie (due di Mulas e una dell’autore) e la breve postfazione-noterella in versi di Guido Oldani. Oltre e grazie alla decorosa confezione editoriale, il libro espone fin dal titolo la “pianta” della sua architettura simbolica. La “milanesità” chiamata in causa è del tutto anticonvenzionale: viene indagata in interiore homine, conosciuta a colpi di spirito, senza preoccupazioni definitorie o identitarie. L’io lirico si sposta – o meglio si ritrova – nei pub e bar di Milano: è un flâneur senza flânerie, un io-avventore che registra l’accadere “milanese” da una specola marginale e quasi “sommersa”. «la metafisica delle cose | diventa sensibile | prende forma | se dentro un bar di Milano | si riesce a vedere fuori» (p. 24). Dal Caffè Luna al Birrificio di Lambrate, dal cinema Mexico all’English football pub: i vetri dei locali sono anche finestre sull’anima, buchi attraverso cui il poeta vuole cogliere la vita spirituale “in situazione”. La poesia di Vaglio rappresenta una Milano a rovescio, come un vuoto che circondi il “pieno” delle sue intermittenze del cuore. Senza diluire tutto nel mondo della psiche, ma con un senso del presente tanto più saldo quanto più forte è la fuga diagonale verso uno spiritualismo sincronico (o pancronico).

Seduto tra le voci e la musica
del birrificio di Lambrate osservo
che è poca la differenza tra il colore
rosso-bruno di una Porpora
e il marrone della torta al cioccolato
– anche il tavolo di legno sta lì,
a fare da contrappunto –
e mi sento quasi un evaso
da non so bene dove
forse dalla mia casa
lontana trecento metri
o da una chiusa del tempo.
[…]

(p. 21)

Gli angoli milanesi sono vissuti e indagati da un occhio solitario, che pratica una specie di epicureismo minimo d’ambientazione urbana: dalla serata al cinema «in compagnia di me stesso» (p. 12) alla scaramuccia erotica tra due barman, dalla partita del Milan alla passante seduta al bar che ricorda un vecchio amore del liceo. Il tocco vagamente crepuscolare delle scene non è minimalismo compiaciuto, ma tecnica per inchiodare il pensiero ed evocare epifanie complesse, che si agganciano al dato “disarmato” di un piatto di fusilli o dell’ebbrezza indotta da una Kwak. Quel tanto di dimesso e asciutto che a volte si riscontra nel tono è più simile a un’inerzia allucinata, al bulino della Melancholia di Dürer, depurata però da ogni emblema o sovraccarico intellettualistico.

L’io-avventore non si sposta per i locali, ma per lo più vi si trova installato come una monade che abiti «una nicchia possibile | un angolo, un canto vuoto | a vita rallentata | che gli uomini vedono | e passano nel tempo libero» (p. 20). La “monade lirica” è spesso in bilico tra prigionia ed estasi, e le due cose si mescolano in un conflitto esposto con candore e coraggio: «torno a sbirciare la gente | raccolgo frammenti di frasi | leggo e bevo birra | sono quasi felice | ma non sono sicuro | se questa liberazione dagli altri | questa vita mercuriale | è tutto quello che devo fare» (pp. 16-17). Questa eudemonologia da happy hour – a cui l’alcool spesso presta le sue virtù “terapeutiche” – ha qualcosa del voyeur e insieme dell’asceta. L’esclusione a cui l’io si sente destinato è bilanciata da una dolcezza da eremita, una specie di ostinazione a quadrare i cerchi dell’angoscia sciogliendoli in una gioia sottile e ambigua. Tuttavia il rapporto con l’altro-da-sé non cela i suoi lati oscuri, si trova sempre in bilico tra appropriazione e inappartenenza. In Fantasma residuo, ad esempio, l’io si depura «da un’essenza troppo nuda | da una volontà di esistere | nel tempo degli altri» (p. 35). Ma la lotta con la solitudine è ancora più complessa: Altri luoghi, poesia ispirata a un antico libro egizio, parte con un elenco di divieti («non pensare | le parole proibite | […] non volere | la gioia degli altri» (p. 31) e finisce per opporsi all’«etica dei no», denunciandone gli esiti di privazione e chiusura. In vari componimenti la solitudine viene esorcizzata da un andamento ragionativo che descrive (critica?) gli stati dell’io e mette in dubbio le sue strategie. Nei testi più risolti si delinea una paradossale forma di stasi, in cui convivono abbandono del sé, rivendicazione dei suoi diritti e “coltura” della solitudine – un po’ fuga dimissionaria un po’ via per la trascendenza.

Vaglio aveva esordito con una poesia d’ispirazione metafisica, in cui l’occasione era spesso schiacciata sul «lato invisibile» (p. 44); nella nuova raccolta esperienza e slancio spirituale bruciano insieme. Il “lato invisibile” è abbordato per via astrologica, risalendo l’antica sapienza degli egizi o accennando alla scienza degli angeli. Ma lo spiritualismo non diventa mai evasione, è filigrana, «linfa elettrica» (p. 44)  che si muove sotto (o sopra) la superficie del reale.

Lo stile di Vaglio è pacato e senza spigoli: le scene si compongono spesso per accumulazioni in serie, come si conviene allo sguardo che registra in modo oggettivo perché ha già eletto la soggettività come campo unico della visione. Da notare il gusto per la metamorfosi figurale, per cui gli ingredienti del paesaggio urbano trascorrono l’uno nell’altro, contribuendo all’effetto di legato, che assieme alla leggerezza è un po’ la costante della raccolta. Come nella bella Attila è musica che rimbalza, dedicata a due musicisti che nel 2010 hanno “suonato” il silo Insse di Lambrate:

Attila è musica che rimbalza
sul rumore che arriva dalla tangenziale
controcanto
miracoloso, mentre Nicola suona
note distorte nel vuoto minerale
che sono elettrodi, cavi, batterie
e gambe di ruggine, tubi lunghi
fino alla grande cassa armonica,
il silo dimenticato di Lambrate
[…]

(p. 11)

Oltre al legato, si nota l’impiego frequente della chiusa gnomica, che impenna (o deprime) la curva descrittiva con una considerazione di tipo esistenziale, spesso sibillina ed ellittica. La leggerezza non è solo un fatto di tono: ha valore medicinale, addolcisce il fervore autopedagogico che pervade molti testi. Il poeta è didatta di se stesso, conosce e insieme lenisce, neutralizza lo scotto che gli viene dalla sua ricerca. Ma quando il bisogno di spiegarsi si contrae (come ad esempio in Mozzarelle fritte) o cede alla forza travolgente degli eventi (Appena sveglia dici che hai male), Vaglio raggiunge esiti di particolare forza e asciuttezza ritmica.

In definitiva non è possibile decidere se sia l’io-avventore a guardare la città o la città (i lettori?) a sbirciare negli interni della sua psiche. La movida di Milano è il palco dove il poeta prova e riprova il suo “monologo lirico”: un’opera che vuole includere e afferrare, mediando tra quadro realistico e circuito spirituale. Come ne Il riso in bianco e l’infinito, in cui estasi e nostos si fondono in modo imperfetto e proprio per questo autentico: «soltanto se il sé si riconosce | e poi ammette di essere diverso da sé | se ha ancora il coraggio di perdersi | di scivolare nell’infinito» (p. 30).