Questa è la seconda puntata di una piccolissima indagine sulla critica militante, che prende spunto (come annunciato qui) dalla recente uscita di La terra della prosa. Narratori degli anni Zero, a cura di Andrea Cortellessa. Ogni antologia, soprattutto quando presentata con un testo dal rilievo teorico e critico così pronunciato, si presenta come un invito a discutere e a mettere in questione, tanto le specifiche scelte compiute dal curatore, quanto i presupposti primari di un’operazione di selezione e giudizio qual è un’antologia. Ecco allora un piccolo drappello di critici e critiche delle nuove leve chiamato a confrontarsi intorno a tre domande su antologie e canoni, orizzonti di scrittura e orizzonti di lettura, cartografia e militanza.
A rispondere sono oggi Raffaello Palumbo Mosca e Marco Mongelli (qui si possono trovare invece le prime risposte di Raoul Bruni e Francesca Fiorletta).
1. La produzione letteraria contemporanea si presenta come un orizzonte vasto, slegato, in continua trasformazione, difficile cioè da contenere in un unico sguardo. Come accogli questa antologia? Ti sembra che riesca a mettere ordine e che colmi un vuoto nel panorama critico e letterario di oggi?
2. Spesso, e purtroppo anche giustamente, si parla della critica letteraria come attività autoreferenziale: credi che il lavoro antologico possa essere una soluzione a questa “debolezza”? Il fatto che le scelte per Narratori degli anni Zero rispecchino la nozione di letteratura del curatore ne rende inattendibile il valore?
3. Chi avresti aggiunto, tra i non “selezionati”? Oppure – più crudele – chi credi che sia presente ingiustamente?
Raffaello Palumbo Mosca – Critico letterario e ricercatore presso la University of Kent
1.
L’arte – ha scritto Antonio Franchini in quel libro bellissimo e incategorizzabile che è Cronaca della fine – «spiazzata, decontestualizzata, messa in mezzo a un cumulo di macerie non sempre vi sfolgora; più spesso vi sta come scaglia di maceria nel monte di macerie». Il mercato editoriale odierno sempre più ci circonda (verrebbe da dire: ci assedia) di macerie: romanzi best-seller (che secondo Danilo Kiš sono ormai un «cancro» che «rode il genere dall’interno»), instant book, raccontini e scritture spacciati per romanzi (perché, detto in soldoni, il romanzo “vende”: credo sia questo il punto di Berardinelli quando, assai giustamente, parla del romanzo come di «un genere, ormai, più merceologico che letterario»); siamo dunque sul monte di macerie, di macerie siamo circondati e sommersi. Il mestiere del critico militante non è forse mai stato così pieno di insidie, così spiazzante; eppure, forse, neanche così avventuroso e necessario: possiamo e dobbiamo infilarci lo scafandro, armarci di una buona pila, e immergerci nella massa nera. E ritornare in superficie con i nostri piccoli tesori luccicanti. Questo è, mi pare, quello che fa Cortellessa con la sua antologia; lo fa, aggiungo, in modo rigoroso e documentato. In questo senso l’antologia certo aiuta a mettere ordine, e facendolo si apre alla discussione. Perché l’antologia è anche, e necessariamente, personale e discutibilissima. Non è certo una cosa negativa, anzi: una bella antologia, così come una bella idea, richiede sempre di essere messa in discussione e valutata; o meglio: un’antologia, esattamente come un’idea, è bella quando ne chiama immediatamente un’altra. Quando apre gli orizzonti invece di chiuderli.
2.
Le due domande sono molto diverse; inizio dalla prima spostando, almeno inizialmente, l’attenzione dall’autoreferenzialità alla marginalità. La marginalità della critica letteraria è un dato di fatto difficilmente contestabile e che rispecchia la marginalità della letteratura tutta nel mondo contemporaneo. Ci sono almeno due aspetti da considerare. Uno: oggi il romanzo è pensato innanzi tutto come entertainment (e un entertainment di seconda categoria: cinema e serie televisive sono, dal punto di vista del divertimento puro, molto più funzionali) e non come fonte di una conoscenza fondamentale; la critica, che è letteratura secondaria, non può quindi che esser percepita come irrilevante, come – nei casi migliori – gioco colto (una «laboriosa inezia» per citare Manganelli, che però si riferiva, giocosamente e polemicamente, addirittura alla letteratura tutta). Se il romanzo non verrà di nuovo percepito come uno strumento conoscitivo fondamentale, anche la critica non potrà che languire in circoli ristretti e démodé. In secondo luogo, è evidente che una certa critica strutturalista, tentando (anche giustamente) di superare un approccio semplicemente impressionista ai testi, si è però anche rinchiusa in un’idea di letteratura non solo iper-specialistica (basterebbe solo analizzarne il linguaggio: ostico e spesso illusoriamente scientista) ma anche respingente verso il lettore, anche colto. Non si tratta, è chiaro, di negare il valore di un metodo che ha insegnato molto a tutti, ma di riconoscere come la critica letteraria acquisti un di più di valore (e di senso) quando diventa anche critica della vita. In questo senso mi pare che si siano fatti molti passi avanti e che, almeno a partire dagli anni Novanta, si assista ad un recupero, proficuo e originale, di quella che Berardinelli ha chiamato la «forma-saggio». Ovvero, di una critica che è, al suo cuore, divagante, anti-specialistica, e profondamente radicata nell’esperienza del – e in un’idea di – mondo; una critica, per dirla con Onofri, «spalancata ai venti della vita». La lezione di Borgese, di Garboli, di Debenedetti – per citare solo alcuni dei grandi modelli – non è andata perduta. I nomi li conosciamo tutti e li cito un po’ alla rinfusa e senza alcuna pretesa di completezza: dai maestri Berardinelli, Ficara e Nigro, alla generazione di mezzo con Onofri, Manica e La Porta, fino ai più giovani come, ad esempio, Scarpa e Marchesini. Apro una piccola parentesi per dire che l’attività di commento mi sembra oggi in ottima salute. Ai nomi appena citati se ne potrebbero affiancare infatti molti altri che probabilmente non si riconoscerebbero nella microgenealogia che ho appena tracciato, ma che mi pare abbiano scritto in questi anni libri di notevolissimi risultati. Penso, su tutti (e anche qui non pretendo certo di essere esaustivo), a Donnarumma e Mazzoni.
Quindi, per rispondere direttamente e il più onestamente possibile alla tua domanda, ovvero se questa antologia sia una soluzione alla debolezza dell’autoreferenzialità, direi di sì perché instaura un dialogo proficuo sia con gli autori sia con la comunità dei lettori; eppure anche no perché ho la sensazione che la comunità dei lettori che ho appena menzionato sarà per la maggior parte formata ancora una volta dagli addetti ai lavori. Paradossalmente credo che La terra della prosa possa diventare uno strumento più utile all’estero, per tutti coloro che, come me, insegnano letteratura italiana in università straniere. Uno strumento che, proprio per la sua ricchezza, si presta ad essere ricalibrato da ognuno secondo la sua prospettiva e la sua idea di letteratura. Questo mi porta alla seconda domanda, alla quale vorrei rispondere in maniera più sintetica: cos’altro può fare un’antologia se non rispecchiare l’idea di letteratura del curatore? La risposta è quindi assolutamente no, nessun indebolimento dell’attendibilità dell’antologia. Un’antologia non è mai semplice specchio dell’esistente, ma già sua interpretazione. Più chiare e motivate sono le scelte, più tali scelte possono essere dibattute e, di conseguenza, più l’antologia diventa interessante.
3.
L’idea forte che emerge da questa antologia, e la cosa del resto non sorprende, è quella che lo sperimentalismo, soprattutto linguistico, sia ancora oggi il valore di riferimento. Per me non è così: sono convinto, al contrario, che le innovazioni più interessanti riguardino oggi più la commistione di generi narrativi che non il campo della lingua. Avrei quindi privilegiato una linea di narratori ibridi che Cortellessa afferma di considerare ma che di fatto mi sembra poco rappresentata: se c’è, infatti, Arminio, mancano invece tre nomi per me imprescindibili, ovvero Franchini, Affinati e Albinati. A questi tre aggiungerei sicuramente quello di Andrea Tarabbia. Il demone a Beslan mi sembra uno dei romanzi più compiuti degli ultimi anni; compiuto nel suo perfetto equilibrio tra dato documentale e indagine metafisica (a tratti visionaria: si pensi al personaggio di Ivan e il suo gatto Aleksandar Sergeevič), tra verità storica e verità umana.
Marco Mongelli – contemporaneista e redattore di 404: file not found
1.
Il nostro extrême contemporain letterario è senza dubbio attraversato da molteplici approcci e differenti tradizioni. Sulla comprensione del suo funzionamento pesa a mio avviso una doppia ragione: da un lato è senz’altro vero che che la filiera dell’industria editoriale odierna annulla la bibliodiversità, proponendo e promuovendo un prodotto sempre uguale e sempre riproducibile. Così facendo, non è tanto il critico a essere esautorato, ma il lettore, a cui viene imposto uno e un solo modello di scrittore, di struttura, di stile. D’altro canto però, è anche vero che la critica letteraria istituzionale degli ultimi decenni poca o nulla attenzione ha dato alla produzione narrativa a lei contemporanea, spesso preferendo liquidare un’innegabile eterogeneità come mancanza di valore. Così, le ripetute dichiarazioni di decesso (del romanzo, della critica, dell’intellettuale) hanno lasciato campo libero al marketing e alle classifiche di vendita come uniche effettive detentrici del discorso letterario.
Per quanto detto quindi, questa iniziativa critica e antologica mi pare lodevole e assolutamente necessaria. Nella sua ambizione ma anche nel suo rigore è in grado di restituirci almeno in parte la complessità di una produzione che è sì dispersiva ma non per questo non interessante. Al contrario, le prose dell’ultimo quindicennio mostrano spesso in maniera vivida e articolata fenomeni del contemporaneo, del reale, che fuori dalla fiction sono sommersi dal chiacchiericcio mediatico e dalle strumentalizzazioni a corto raggio. La scelta del criterio narrativo-fabulatorio come sguardo privilegiato di queste prose decentrate mi pare dunque decisamente opportuna. Una certa “tirannia” della realtà, sviluppatasi negli ultimi anni in diversi ambiti del pensiero, ha fatto credere che l’unico discorso che potesse tradurla sulla pagina fosse quello “realistico”. Le prose raccolte in questa antologia spesso dimostrano invece che i confini del discorso sono sempre più labili, che le frontiere tra fiction e non-fiction sono sempre meno distinguibili, e che le scelte ibride di struttura e di stile, ancor prima che di lingua, possono determinare una presa maggiore sul reale, non disgiunta da una significativa riuscita estetica. Le diverse “voci” e i diversi “modi” narrativi che sentiamo in molti romanzi contemporanei mostrano quella «prolifica indistinzione dei generi» che gli scrittori praticano sempre più consapevolmente.
In definitiva, considero La terra della prosa un punto di partenza imprescindibile per ricominciare a occuparci in maniera organica delle pratiche letterarie del nostro paese.
2.
Credo che l’indubbia e ineliminabile parzialità di qualsiasi sguardo critico non si traduca immediatamente in autoreferenzialità. Nel caso specifico la precisa e profonda idea di letteratura del curatore non mina a mio avviso il valore della selezione antologica. Questo non vuol dire che alcuna scelta sia opinabile, ovviamente.
Il limite è secondo me di altra natura e risiede nel considerare gli scrittori e la loro emersione come il punto di partenza della riflessione critica, e non i testi. Ne risulta una “lista” di trenta nuovi auctores prima che di trenta (o sessanta, o cento) nuove prose. Sarebbe stato forse più interessante e coraggioso, ancorché più arduo, nominare per primo le opere, e raggrupparle non secondo l’autore e il suo livello di “maturità letteraria” (questo sì, criterio troppo sfuggente), ma per tematiche, strutture o stili. In questo modo le relazioni si fanno più evidenti, le costanti più nitide e la mappatura ne guadagna in efficacia.
3.
Gli autori che ho letto fra quelli selezionati mi paiono tutti meritevoli di menzione e attenzione critica. Probabilmente senza il criterio della «fioritura» dello scrittore, anche Paolo Sortino sarebbe entrato nel novero. Il suo romanzo d’esordio, Elisabeth, oltre a essere notevolissimo per coraggio narrativo e stile, mi pare già ben maturo. A maggior ragione il discorso varrebbe per Vanni Santoni e il suo Personaggi precari, di recente ripubblicazione. Senza il criterio dell’autore tout court probabilmente si sarebbe invece spiegata meno l’assenza di uno scrittore come Giuseppe Genna o del collettivo Wu Ming, entrambi esordienti nel 1999: pur nella loro estrema diversità, per il modo in cui hanno esplorato i generi letterari e indagato il contemporaneo non possono essere a mio avviso ignorati se si parla di nuove prose.