Da Il Giovane favoloso di Martone sulla vita di Giacomo Leopardi a Pasolini di Abel Ferrara: alla settantunesima mostra di Venezia è andato in scena l’uomo di lettere, creatura tra le meno indicate ad essere rappresentate sul grande schermo. Operazioni complesse e artificiose, i ritratti cinematografici di scrittori finiscono spesso per risultare piatti, anemici, superficiali, una sequela di aneddoti arricchiti da posticci richiami alle opere degli autori. Del resto, dietro a un potente romanzo, non è detto si celi un altrettanto titanica figura, anzi, gli scrittori sono perlopiù creature semplici e abitudinarie, osservatori che amano mimetizzarsi dietro le proprie parole ed evitare i riflettori.

Ma se si parla di Pier Paolo Pasolini, la situazione cambia improvvisamente, il confine tra opera e autore diventa più labile e lo scambio tra vita e finzione continuo e intenso. Il corpo stesso del poeta regista, il suo modo di esibirlo, lo pone in una posizione differente rispetto agli altri scrittori. Basti pensare a quegli scatti di Dino Pedriali, tra Sabaudia e Chia, nell’ottobre del  ’75, due settimane prima della morte. Pasolini posa per una sorprendente serie di foto in bianco e nero, che lo ritraggono in vari momenti privati, come la scrittura  a macchina o la lettura di un libro sdraiato sul letto, nudo. L’intellettuale si offre all’obiettivo con totale disinvoltura, mostrando quel suo fisico da giovane vecchio, scavato da mille anfratti e percorsi, teso e nervoso; quelle immagini avrebbero dovuto illustrare il suo ultimo romanzo Petrolio. Emanuele Trevi nel suo romanzo-saggio Qualcosa di scritto,  ricordando proprio quegli scatti, dimostra come l’uomo e più esattamente il suo corpo fossero ormai divenuti emanazione e rappresentazione delle sue ultime opere, Salò e Petrolio, veri e propri testamenti, produzioni ormai slegate dal gusto e dalle correnti, dal valore quasi iniziatico più che artistico: “quello che vediamo in queste immagini illuminanti è, senza ombra di dubbio, quell’uomo in carne e ossa  che sta scrivendo Petrolio. E’ un uomo che è arrivato, si direbbe, al limite estremo della sua realizzazione individuale”.

Da qui comincia il film di Abel Ferrara, dal limite, il punto finale in cui sembra essere giunto Pier Paolo Pasolini e che lo separa definitivamente dal resto degli uomini. Lo troviamo in studio, intervistato da un giornalista francese mentre scorrono crudeli alcune scene di Salò o le 120 giornate di Sodoma, il suo film al tempo stesso più rigoroso ed estremo. Fin dalle prime inquadrature la regia si sofferma ossessiva su Willem Dafoe, nel ruolo di uno straniante Pasolini che risponde all’intervistatore in americano, poi in uno stentato francese, pur rimanendo estremamente convincente nell’interpretazione. Ferrara infatti, per la versione originale, opta per una commistione di lingue, l’italiano e l’inglese si confondo nelle stesse scene, in particolare in bocca al protagonista; la scelta è stata accolta negativamente da molti critici e addetti ai lavori, i quali avvertono proprio in questo Pasolini straniero e nella sua faticosa parlata una delle principali debolezze della pellicola. Credo, al contrario, che questa soluzione conduca, seppur involontariamente, a una caratterizzazione del poeta più autentica di quanto avrebbe potuto ottenere Ferrara scritturando un attore italiano. Il risultato, infatti, è sorprendente non solo per la bravura dell’attore americano e il suo calarsi nel ruolo del poeta regista con un recitato sobrio e misurato, ma soprattutto per una indefinibile quanto intensa aura di alterità di cui si carica la figura di Pasolini, separato ed isolato nella sua stessa Roma, incompreso e cupo, vero e proprio Homo sacer nella definizione di Giorgio Agamben, cioè fuori dalla società, sacrificabile. Rituali e cerimonie iniziatiche sono del resto i temi principali degli ultimi lavori del’autore bolognese, persino in quelli che non vedranno mai la luce. Abel Ferrara ad esempio, in un coraggioso quanto ingenuo tentativo di proseguire il lavoro del poeta,  immagina nel suo film alcuni frammenti di Porno-Teo-Kolossal, storia di un ironico re magio e del suo servo, in viaggio alla ricerca del messia e che Pasolini stava scrivendo pensando a Eduardo De Filippo e Ninetto Davoli. Quest’utlimo, seppur non del tutto riuscito, resta uno degli spunti più interessanti del film visto a Venezia: Ferrara non si limita alla cronaca delle ultime ventiquattro ore della vita di Pasolini, ma si prende la licenza poetica di interpretare le sue ultime opere, mescolando quindi realtà e finzione, corpo e mondo pasoliniano.

Assistiamo così a una interessante anche se breve incursione visionaria nel romanzo Petrolio, l’incompiuto lavoro che sempre Trevi chiama una “bestia selvaggia”:

(…)la cronaca di un processo di conoscenza e di trasformazione. Ѐ una presa di coscienza del mondo e un esperimento su se stessi. Tecnicamente: un’iniziazione (…) Petrolio, una volta riemerso dal fondo del cassetto, sembra provenire non da un’altra epoca, ma da un’altra dimensione, come uno di quegli oggetti di materia sconosciuta, refrattari alle leggi della fisica e della geometria euclidea.

Ferrara quindi mette in immagini e suoni le paradossali vicende dell’ingegnere Carlo, ne cattura dei frammenti, ma senza purtroppo dar loro il giusto spazio e respiro. Il film infatti esordisce con un enorme carico di promesse, si intravede il tentativo audace e spericolato di mettere le mani nel materiale pasoliniano, anche a costo di dissacrarlo, ma l’azione eversiva si esaurisce in fretta, quasi giungesse un monito di ubris, così la seconda parte del film scorre su binari più convenzionali, limitandosi a riproporci, anche in questo caso come in un rito, i momenti dell’ultima notte di Pasolini e la sua morte all’idroscalo di Ostia.

Il film dunque soffre di una certa timidezza espressiva auto-imposta che lo allontana inevitabilmente dalla completezza e lo condanna a non essere niente di più che un ispirato e sensibile omaggio a uno degli intellettuali più importanti del novecento, come se lo scandaloso Abel Ferrara, regista di the Driller killer e il cattivo tenente, nutrisse troppo rispetto per il soggetto per declinarlo in qualcosa di personale.

Pasolini (Belgio/ Italia/ Francia 2014, biografico 86’) di Abel Ferrara con Willem Dafoe, Ninetto Davoli, Riccardo Scamarcio, Valerio Mastandrea, Adriana Asti.