Pubblichiamo oggi le risposte di Fabio Deotto alle dieci domande che nel 2013 abbiamo rivolto agli scrittori nati negli anni Ottanta. I temi dell’inchiesta #DieciPerDieci saranno al centro dell’incontro “Dagli anni Ottanta agli anni Dieci: scrittori a confronto, organizzato dalla Balena Bianca per Bookcity 2014: domenica 16 novembre, alle 12:30 presso la sala del Grechetto della Biblioteca Sormani di Milano, a conversare con Giacomo Raccis ci saranno proprio Fabio Deotto ed Emmanuela Carbè.

1) L’enorme quantità di libri che oggi invadono le nostre librerie mette a dura prova le capacità di “resistenza” delle opere di valore che si affacciano sul mercato. Secondo te, dovrebbe essere compito del “sistema” trovare un nuovo rigore nel filtrare più attentamente le candidature di giovani autori, o spetta piuttosto a chi scrive una maggiore responsabilità, una sorta di autocensura da mantenere fino a che la propria scrittura non abbia raggiunto un giusto livello di maturazione?

A costo di suonare scontato, rispondo che necessariamente è un compito che spetta a entrambi. Da un lato ci sono plotoni di scrittori, o aspiranti tali, che spediscono tonnellate di manoscritti, spesso prime bozze o addirittura lavori incompleti, a qualunque indirizzo riescano a trovare in rete; dall’altro ho l’impressione che alcuni editori adottino strategie da lotteria, mandando legioni di autori allo sbaraglio nella speranza di vedere esplodere un nuovo caso editoriale. Dovendo scegliere su chi addossare il grosso della colpa, però, scelgo gli autori. Finché le case editrici, piccole o grandi che siano, verranno subissate di manoscritti incompleti, prime bozze, opere che non hanno alcuna attinenza con la linea editoriale del ricevente, allora è dura incolpare le case editrici di non saper fare scouting. Perciò credo che l’autocensura (ossia: lavorare al romanzo come pazzi prima di spedirlo) sia fondamentale, altrimenti si rischia di ingolfare un sistema già al collasso, e questo finisce per penalizzare più gli autori desiderosi di emergere che le case editrici.

2) Gli spazi della scrittura sono oggi moltiplicati a dismisura, in rete e non solo: credi che lo scrittore faccia bene a cercare di occuparli in maniera più massiccia possibile, o paga di più una strategia di discrezione, di scrittura mirata? In sostanza, esiste una “necessità” della scrittura in questo sistema che ha decuplicato le occasioni di parola?

La diffusione di nuove piattaforme, e dunque di nuove occasioni per “reinventare” la scrittura, è ancora un processo in fieri. Conosco scrittori che utilizzano Facebook come un surrogato di blog, traspongono quello che gli succede durante la giornata (o quello che vogliono far credere sia successo) in una forma narrativa pronto uso, una sorta di racconto istantaneo che consente ai lettori di mantenere lo stesso rapporto lettore-autore anche a romanzo finito. C’è poi chi sta provando a utilizzare Twitter, con risultati altalenanti. Per dire, la scelta di Jennifer Egan di spezzettare una narrazione in tanti tweet secondo me è concettualmente sbagliata: nessuno usa Twitter in quel modo, nessuno vuole leggere lunghe storie singhiozzate in 140 caratteri. Diverso invece è il caso di Andrea Maggiolo, che con la sua Micronarrativa riesce a raccontare intere esistenze con un solo tweet. Detto questo, credo che ancora nessuno di questi strumenti possa sostituire la scrittura vera e propria. Un romanzo (o un racconto) richiede un patto tra lettore e autore, un tacito consenso in cui l’autore non si scrive addosso e il lettore si impegna attivamente nel dare vita a una storia attraverso l’interpretazione. È un’esperienza totalizzante, che richiede tempo, concentrazione e fiducia, ed è radicalmente diversa dall’esperienza immediata veicolata da uno status di Facebook o da una carrellata di tweet. Sono due mondi diversi e, per ora, non comunicanti. Perciò, in questo senso: sì, la scrittura è ancora “necessaria”.

3) Qual è la tua posizione di fronte alla dimensione virtuale del sistema culturale? Trovi che l’esplosione di pareri e idee sia fruttuoso? Pensi che la critica possa trovare in questa situazione le premesse per tornare a orientare scelte e gusti?

Se per ogni persona che scrive un parere, o una recensione, o una stroncatura divertita, ne esistessero dieci che quel parere se lo vanno a leggere, allora sì, ti direi che quest’esplosione di idee è fruttuosa. Purtroppo ho l’impressione siano più le persone che sentono l’obbligo di avere (ed esprimere) una propria opinione, che quelle che sentono l’esigenza di leggerla. Ma come sopra, anche in questo caso siamo penalizzati dalla transizione. Grazie alla rete, e al conseguente moltiplicarsi delle voci in gioco, come lettore ho avuto modo di ricevere pareri, consigli e stimoli preziosi, che solo qualche anno fa non avrei potuto trovare. Penso che a questo punto stia all’utente il compito di setacciare questo marasma alla ricerca delle voci più affidabili. Bastano un paio di recensioni per capire se un critico sia attendibile o meno, basterebbe essere curiosi e sottrarre un po’ di tempo alla propria esigenza di “esserci” per prestarlo alla necessità di “scoprire” nuove voci.

4) Credi sia ancora possibile pensare a un vincolo che leghi la scrittura all’impegno civile?

Non vedo perché dovrebbe esistere un vincolo di questo tipo. Per quanto mi riguarda, ho sempre prediletto gli autori che nelle loro opere mostrano un interesse verso l’indagine sociale e politica, parlo di scrittori come Orwell, Dick, Vonnegut, Perec; ma non credo che un autore (o un lettore) dovrebbe porsi vincoli nello scrivere (e leggere) romanzi. Insomma, ci sono buoni romanzi che sono puro intrattenimento e romanzi scadenti con ambizioni sociali, la scala di grigi è vastissima e spesso le linee di demarcazione fra ciò che è “semplice” mestiere e ciò che ha un respiro più ampio sono impossibili da stabilire.

5) Scrivere è il tuo lavoro? Se sì, in che forme? Se no, come riesci a coniugare il tuo lavoro con la scrittura?

In un certo senso lo è. Lavoro come giornalista free-lance, scrivo prevalentemente di scienza, tecnologia e narrativa, a volte di cinema e musica, quando capita traduco dall’inglese. Il problema è che si tratta sempre di sedersi davanti a un portatile e battere su una tastiera. È un lavoro che fai da casa e, alla lunga, il rischio è che in quella casa tu faccia tutto: lavorare, dormire, mangiare, scrivere, rilassarti; questo rischia di diventare un problema, nel momento in cui ti vuoi dedicare alla scrittura vera e propria. Perciò, in assenza di uno studio mio in cui isolarmi, finisce che nei ritagli di tempo vago come un’anima in pena tra biblioteche, caffetterie e la mia vecchia stanza a casa dei miei, qualunque posto che non possa associare al lavoro e alla routine quotidiana. Poi c’è la questione economica, naturalmente. Lavoro in condizioni assolutamente precarie, e i soldi non sono quasi mai abbastanza per arrivare sereno a fine mese. Potrei lavorare di più, certo, (o meglio, potrei provare a cercare più collaborazioni) ma dovrei rinunciare al tempo materiale e mentale che mi serve per scrivere.

6) Quando scrivi, un racconto o un romanzo, che genere di lettore ti immagini? E come cerchi di raggiungerlo?

Di solito cerco di astrarmi e immaginare me stesso come potenziale lettore del romanzo in costruzione, un lettore parecchio esigente che continua a cercare il “tipo” di romanzo che vorrebbe leggere ma che non è mai riuscito a trovare. Finché quel lettore non è soddisfatto, finché non la smette di scuotere la testa e sbuffare, non sollevo la penna dal foglio.

7) Tra scrittori e critici c’è una forte vicinanza, spesso dovuta a motivi d’amicizia, spesso ad affinità intellettuali; c’è un critico capace oggi di leggere meglio degli altri le evoluzioni e le implicazioni della produzione letteraria italiana?

Come per la scrittura, esiste una condizione necessaria ma non sufficiente per fare buona critica, ed è la stessa: l’onestà. Esistono ottimi critici che a volte scivolano in una recensione sbagliata, magari perché hanno un pregiudizio nei confronti dei generi a cui il romanzo fa riferimento, magari perché hanno pregiudizi sull’autore stesso; a volte, per quanto bravo, un critico non ha gli strumenti adatti per valutare un romanzo che parla una lingua e trascrive un mondo a lui ignoti. Ecco, un bravo critico dovrebbe avere uno sguardo il più possibile ampio sul panorama letterario, leggere il più possibile e mettere quotidianamente in discussione le proprie linee guida, ma soprattutto dovrebbe avere l’onestà necessaria per rinunciare a un giudizio quando le circostanze lo rendono impossibile. Ho sentito diversi critici parlare di obiettività, rivendicare la possibilità di gettare uno sguardo oggettivo su qualunque opera. Credo si tratti di un miraggio. Di fronte a materiale emozionale come un romanzo, esisterà sempre una componente soggettiva, e il bravo critico deve tenerne conto. Da questo punto di vista, dato che mi hai chiesto di fare nomi, i primi che mi vengono in mente sono Marco Rossari e Antonio Lauriola.

8) Se guardi all’attuale situazione letteraria italiana, ti sembra che si possa parlare di poetiche, di modelli preminenti, o invece prevale un sistema puntiforme dove ognuno costruisce il suo percorso in maniera indipendente rispetto agli altri colleghi, anche se amici o affini?

A questa, come alle altre domande, posso rispondere basandomi unicamente sulla mia esperienza, e probabilmente la mia esperienza non è sufficientemente approfondita per esprimere un giudizio. Devo confessarti che non leggo molti italiani, ogni tanto scopro nuovi autori (o li conosco di persona) e mi interesso alle loro opere, ma non posso dire di avere il polso dell’attuale situazione letteraria. L’impressione che ho, ad ogni modo, è che la logica puntiforme prevalga sulla rete. Certo, esistono tendenze piuttosto evidenti e ci sono sicuramente gruppi di autori che provano a identificare tratti in comune che possano essere usati come bussola, ma se penso agli italiani che più mi piacciono, vedo solo cani sciolti. E questo credo sia un bene. Per me scrivere vuol dire superare steccati, esplorare direzioni, ribaltare stilemi, o quanto meno provarci. Credo che individuare modelli preminenti sia un’operazione che va fatta solo a posteriori. Molto a posteriori.

9) Credi che la tradizione letteraria italiana, e in particolare quella romanzesca, soffra ancora del provincialismo che tanto spesso le è stato imputato? Quando scrivi hai come riferimento autori appartenuti al nostro passato e scrittori che hanno vissuto in altri luoghi?

Ho un background scientifico, mi sono laureato in biotecnologie, perciò la mia formazione letteraria è tutt’altro che accademica. Sicuramente ci sono autori italiani che mi hanno influenzato e continuano a farlo (Buzzati, Berto, Verga, per certi versi Pirandello…), ma gran parte delle mie influenze arrivano dagli autori americani degli anni ’50 e ’60. Forse è per questo che non sento l’esigenza di ancorare le mie storie a una cornice locale. Certo, l’Italia e la sua cultura sono componenti fondamentali di quello che scrivo, ma non ho interesse a fotografare in maniera realistica un determinato aspetto della situazione italiana attuale o, per dire, un quartiere della mia città. So che diversi autori italiani danno molta importanza alle situazioni e ai luoghi in cui vivono, ma non parlerei di provincialismo, è solo un tipo di ambizione differente.

10) Se potessi essere un personaggio letterario, chi ti piacerebbe essere?

Scherzi? I personaggi letterari se la passano tutti malissimo. Potrei risponderti con il protagonista de La Macchina del Tempo di H.G. Wells, ma poi mi toccherebbe sparire nell’ignoto; oppure l’Eddie Virago di Cowboys & Indians di J. O’Connor, ma dovrei rassegnarmi a diventare uno stronzo cinico che ha perso l’amore per la musica. No credo che se proprio dovessi scegliere, andrei a rifugiarmi in un romanzo di Roald Dahl: la Sofia del GGG, ad esempio, quella sarebbe una bella vita.

condominio r39

Fabio Deotto è nato a Vimercate (MB) nel 1982. Laureato in Biotecnologie, scrive articoli, interviste e approfondimenti a sfondo scientifico, musicale e letterario per numerose riviste e giornali nazionali. Condominio R39 (Einaudi 2014) è il suo primo romanzo.

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