Nel fine settimana dal 17 al 19 ottobre 2014 si è tenuta a Treviso la prima edizione di Carta Carbone, festival letterario dedicato ad “autobiografia & dintorni”, che affiancandosi alle consolidate manifestazioni della vicina Pordenone (il Dedica Festival e PordenoneLegge) conferma una rinascita culturale del capoluogo della Marca dopo vent’anni di desertificazione leghista, come testimoniato già a fine aprile da un International Jazz Day di rilevanza davvero internazionale. I primi passi del neonato festival sono stati fermi e sicuri, sia nella scelta di ospiti di grande livello che nella collaborazione con alcune tra le migliori realtà cittadine, quali la storica libreria Canova, la Biblioteca vivente e il Treviso Comic Book Festival, di cui nel 2013 si è celebrato il decennale. Da segnalare inoltre l’inaugurazione di un concorso letterario, congiuntamente con l’editore Kellerman. Speriamo che il bebè cresca in salute, e che in futuro possa avere dei fratellini.

A degna conclusione della tre giorni, il medioevale Palazzo dei Trecento ha ospitato un incontro con Valerio Magrelli, affermato poeta e smaliziato prosatore a tempo perso; oltre che, a tempo pieno, docente di letteratura francese all’università di Cassino.

Egregiamente introdotto e spalleggiato dal collega Stefano Brugnolo, anch’egli docente universitario e qui in veste di presentatore dopo essere stato a sua volta ospite del festival, Magrelli ha esordito per la verità nella maniera più spiazzante, con la lettura di un brano sul padre, che in età senile aveva sviluppato un’ossessione per la defecazione e, ormai morente, si sforzava di espellere nientemeno che la vita: “Mio padre cacava se stesso” (§ 15).

Ma procediamo con ordine. Un festival letterario a tema autobiografico non sembra certo un contesto insolito per un poeta; ma quale testo è chiamato a presentare nella sua veste di prosatore?

Per un decennio, Magrelli aveva raccolto una serie di appunti sul padre già malato, depositandoli in una cesta come altrettanti pulcini che, pigolando, esigevano la sua attenzione. Alla morte del genitore, Magrelli decise di prendersi cura di quella nidiata. Ma che forma dare ad un insieme eterogeneo di appunti, specialmente se per propria ammissione si è incapaci di elaborare una trama? L’avversione o la semplice incompatibilità con la narrativa è del resto un tratto non insolito fra i poeti, e tanto in passato quanto in epoca più recente illustri colleghi si sono confrontati con la prova della prosa scegliendo la via della saggistica, dell’aforistica, del mémoir. Di qui probabilmente la decisione di Magrelli di ‘ordinare’ i foglietti sparsi in 83 paragrafi, quanti gli anni di vita del padre Giacinto, per dare ‘forma’ a una vera autobiografia del padre, sulla scorta dell’Autobiographie de mon père di Pierre Pachet (§ 53). Il risultato è la Geologia di un padre, pubblicata nel 2013 da Einaudi nei Coralli e ristampata l’anno scorso in edizione tascabile (dal momento che le due edizioni hanno impaginazioni differenti, viene riportato il paragrafo anziché la pagina delle citazioni).

I termini ordine e forma sono qui usati fra virgolette perché, nell’abbracciare i propri punti deboli fino a farne una poetica, l’autore rifiuta di seguire una sequenza logica, procedendo piuttosto in maniera episodica, per associazioni di idee e non di rado per salti logici, quando non per semplice capriccio: nel corso della presentazione ha svelato di aver volutamente assegnato il brano con cui aveva esordito al paragrafo 15, intitolato non a caso Le Idi, che costituisce l’episodio più duro e pesante della collezione; in un certo senso il suo nadir. Per contrappeso, il paragrafo seguente è il più lieve, oltre che il più breve: “Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato” (§ 16).

Ecco l’intento programmatico di Magrelli, uomo già maturo (a un certo punto si domanda a che età si smette di essere orfani) che tenta di fare i conti con la figura paterna. Anzitutto con la sua dipartita: i paragrafi inaugurali sono dedicati, prosaicamente, all’incombenza della sepoltura, in una tomba di famiglia che si scopre allagata per l’incuria. Magrelli si trova suo malgrado nella posizione di dover fare i conti con le incongrue usanze funebri nostrane:

In molte nazioni la spoglia viene affidata alla terra, in una semplice cassa di legno, per poi filtrare via, sciolta nell’humus. Da noi, al contrario, i morti sono accolti in un’architettura che impedisce loro di svanire.

Ospitati dentro caseggiati di pietra, separati dal suolo, sono riposti, sì, entro bare di legno, ma bare foderate di zinco. (§ 2)

A partire dalle spoglie dei parenti, ciascuno “torrefatto” nella propria bara, inizia una ricostruzione genealogica che si dirama nel passato fino a una nonna incartapecorita “scesa dai monti della Ciocaria”, dal Lazio meridionale. Magrelli non ha mai visitato Pofi, il paese d’origine del padre, ma il suo spirito accademico lo spinge a scovare testi che, spesso affidandosi a teorie, ne ricostruiscono origini e fortuna: un sonetto dedicato a Pofi è attribuito a Giambattista Marino, circostanza che è facile immaginare irresistibile per il Magrelli poeta. Nell’archeologica ricerca del padre, l’autore s’imbatte nella notizia dell’importante ritrovamento dei resti di un ominide preistorico, prontamente ribattezzato Uomo di Pofi. In modo tanto incongruo quanto naturale, l’indagine genealogica diventa pertanto geologica: “Eccolo, l’Uomo di Pofi: era mio padre! È lui che sto cercando, mentre mi limito a studiare da lontano la sua culla preistorica” (§ 48).

Valerio cerca il padre Giacinto, e il viatico scelto per ritrovarlo, “nella notte della mia infanzia, tra 400.000 e 300.000 anni fa” (§ 48), è rigorosamente quello della memoria. Anche di fronte alle “agende dei suoi ultimi vent’anni”, documenti indispensabili per quello che ormai è chiaramente uno studio approfondito (testimoniano tra l’altro la succitata ossessione), Magrelli conclude: “Non mi importa nulla degli archivi, e provo nausea per i documenti. L’unico documento sono io: la carta moschicida del ricordo” (§ 14).

E dalla memoria riemergono allora decine di episodi. Nei più recenti il padre compare ormai anziano, progressivamente sempre meno capace di controllare il corpo e, con l’avanzare del Parkinson, anche la mente; “un Anchise a rotelle con un Enea ortopedico” (§ 41), che ha bisogno delle cure del figlio ma finisce per confonderlo con il fratello maggiore, e non sa capacitarsi di averlo superato in vecchiaia: «Perché sei più giovane di me?» (§ 43). Nei ricordi d’infanzia dell’autore, il padre appare in larga parte limitato dalle proprie qualità e ingigantito dai propri difetti: sfrontato, iracondo, completamente inetto negli affari – tanto che il figlio, come ha rivelato a Treviso, era giunto alla conclusione che fare la cosa giusta significasse semplicemente prendere le decisioni opposte a quelle del genitore. E scavando ancora più indietro, il padre è protagonista di storie che lo stesso Magrelli conosce solamente per averle sentite raccontare. In primo luogo i suoi ricordi di guerra: una fucilazione nei Balcani (§ 12); un controllo dei nazisti scampato fingendosi studente di medicina anziché di ingegneria (§ 60); e su tutti il sopralluogo dell’ippodromo di Capannelle che, inevitabilmente, impunemente, diventa una corsa a briglia sciolta, in piena guerra (§ 11).

Episodi citati proprio per la loro peculiarità, e tanto più rappresentativi quanto più risultano sopra le righe. È lo stesso Magrelli a confessare in apertura:

Esagero. Esagero e falsifico. […] Eppure mi viene spontaneo polarizzare gli elementi della sua vita, accentuandone i tratti e spingendo verso la caricatura. Così facendo, infatti, mi sembra di assecondare il suo carattere, mettendone a nudo le linee importanti. Più vero del vero, insomma. (§ 6)

Un ritratto per certi versi schizoide, costruito a livello testuale sulla sovversione di materiali colti. “Ulisse con i Proci, o Sandokan, Mandrake, erano pallide prefigurazioni di quanto poteva mio padre” (§ 9): dalla letteratura epica a quella d’avventura fino ai fumetti, in un paradossale anticlimax che ha l’unico scopo di elevare la faccia tosta di Giacinto a statura sovrumana. Similitudini sbilenche, la cui sproporzione serve non già a creare l’effetto comico, come si sarebbe forse spinti a credere in un primo momento, ma per l’appunto a restituire una figura che partecipa dell’epica come della caricatura. Emerge da passi come questo la cultura non solo accademica di Magrelli, e soprattutto la sua maestria, evidentemente frutto di lunga riflessione, nel rimaneggiare testi propri e altrui. Il volume fa uso continuo di citazioni e riferimenti letterari, riportando espressioni, frasi e a volte interi paragrafi: il 69 è un’unica citazione da Giovanni Testori. Al contempo la nota finale spiega che Geologia di un padre “costituisce l’ultimo pannello di una serie”, un quadrittico che “recupera brani e brandelli di opere precedenti, riportandoli in circolo, innestandoli su un nuovo tronco narrativo”.

Frutto della medesima abitudine alla riflessione è anche il principio, mutuato da Octavio Paz, che l’esempio dei maestri indichi non una possibile strada da percorrere, quanto piuttosto una strada preclusa, perché loro per primi l’hanno esplorata: la loro eredità non è quindi di darci una scelta in più, ma una in meno. Un simile precetto spiegherebbe la natura fortemente idiosincratica e sui generis del testo, un mémoir i cui brevi paragrafi rasentano l’aforisma e il poema in prosa. Forme letterarie che, come la poesia, procedono per immagini e illuminazioni, e che nelle mani di Magrelli divengono eminentemente figurative, esemplari nella loro plasticità; fino ad alcune immagini composite, costruite con elementi a prima vista inconciliabili: gli “occhi-denti” (§ 15), la “nonna-sigarillo” (§ 5).

Il bilancio è di una perdita irrimediabile, e non solo per chi rimane: agli occhi del padre defunto, sostiene l’autore, è infatti il figlio a essere morto; ciascuno ha perso l’altro, e di conseguenza una parte di sé. A scomparire è stata la loro coppia, e “ormai siamo spaiati, definitivamente” (§ 29).

Lui continua a mancare (§ 28).

A conclusione delle riflessioni su di un testo così fortemente patrilineare, è lecito chiedersi se e come compaia la figura materna. La madre viene menzionata una sola volta, nel paragrafo 72 (facile a questo punto supporre che la scelta del numero non sia casuale), dove viene narrato della sordità che l’aveva colpita nella vecchiaia e dell’Alzheimer di cui alla fine anche lei era stata vittima. L’autore le dedica una Ninna nanna e conclude citando un brano di Montaigne sulla morte volontaria, che lui considera la più bella perché, al contrario della nascita, è una libera scelta dell’individuo. Il paragrafo si chiude con un link: www.dignitas.ch.

Null’altro, e del resto ogni altra parola sarebbe superflua.


Valerio Magrelli, Genealogia di un padre, Einaudi 2013, pp. 143, € 18.