I fatti di Parigi di questi ultimi giorni hanno scosso evidentemente le nostre coscienze. Si tratti o no dell’11 settembre europeo, l’attentato alla redazione di «Charlie Hebdo», la fuga dei terroristi e il loro ultimo tentativo di barricarsi nella tipografia di Dammartin-en-Goele, mentre Amedy Coulibaly e la sua compagna prendevano in ostaggio i clienti di un negozio kosher a Porte de Vincennes, ci danno l’impressione che nell’ormai annosa questione del terrorismo islamico sia avvenuto un “salto di qualità” che ci mette di fronte a un pericolo effettivo, urgente come mai prima.

L’orrore, la paura e l’indignazione, ma anche l’orgoglio e la voglia di rivalsa suscitati da questi avvenimenti hanno prodotto, come sempre più spesso accade nell’opinione pubblica occidentale, una forte reazione, impulsiva e solidale, che ha trovato naturalmente espressione nei post su Facebook, nei tweet, nelle condivisioni di status, notizie o articoli provenienti dalle altitudini più disparate del web. Anche se la matrice islamica di questi attentati sembra chiamare – chiamarci – tutti a schierarsi dalla medesima parte, le opinioni espresse e divulgate con il tam tam dei social network non sono tutte uguali, com’è normale aspettarsi in una comunità digitale estesa e diversificata al suo interno.

Ecco allora la teoria di cartelli neri con l’hashtag #jesuischarlie; ecco le vecchie copertine dell’“irriverente” «Charlie Hebdo»; ecco le scritte «12 morts, 66 millions de blessés» a ricordare l’unanime cordoglio della Francia, impegnata da ora al fianco dei defunti e coraggiosi vignettisti nella guerra all’odio religioso e alla violenza integralista. Ecco le dichiarazioni a favore della «libertà d’espressione» – con annesse lamentazioni per la povertà culturale dell’Italia, incapace anche solo di far vivere riviste satiriche come «Charlie Hebdo» – e le condanne radicali a ogni potere “oscurantista”.

Ma ecco anche le richieste rivolte ai rappresentanti delle comunità islamiche in Occidente affinché condannino gli attentatori, ne disconoscano l’appartenenza alla loro medesimo Islam; ed ecco le risposte degli stessi rappresentanti, le prese di posizioni nette, seguite dalla nuova campagna virale, #NotInMyName, realizzata dai musulmani che non vogliono che la loro fede sia associata alle azioni di Said e Cherif Khouachi.

E poi ecco la condivisione di articoli che ricordano come quei celebri vignettisti, i compianti Charb, Cabu, Tignous e Wolinski, negli ultimi anni avevano dato al loro settimanale un’impronta razzista e islamofoba, vittima di un bisogno di assecondare il nuovo sentimento della gauche caviar francese – principale acquirente di «Charlie Hebdo», dicono –, ormai assoggettata alla logica dello scontro di civiltà, vero pilastro dell’ordine del discorso dominante. A fianco di questi, ecco gli articoli dei complottisti, pronti a riconoscere nelle mancanze della polizia francese e nelle incongruenze dei resoconti giornalistici, le tracce di una convergenza tra interessi diversi, quelli degli integralisti islamici, impegnati nella loro folle jihad, e quelli del potere occidentale alla caccia di un pretesto per restringere le maglie delle libertà individuali e per giustificare qualsiasi intervento repressivo realizzato in nome della “sicurezza”.

E infine, ecco le piazze che si riempiono e i palchi che vedono susseguirsi discorsi e testimonianze di chi si trova a ripetere come un mantra che l’Islam non è quello dei terroristi e degli integralisti di Al Baghdadi, che l’Occidente non diventerà la patria chiusa e razzista che vorrebbero le destre nazionaliste alla Le Pen e alla Salvini, a ribadire che l’egualitarismo, l’integrazione e la libertà di espressione sono i presupposti non contrattabili della pace per cui tutti ci battiamo ogni giorno, e per ottenere la quale non servono gli F35 o le missioni di pace, ma il buon senso e il miglioramento delle condizioni sociali e civili.

In questa pletora di discorsi e opinioni diverse, che si inseguono e sovrappongono, che cercano d’imporsi a suon di retweet, di like  e di applausi, un solo elemento resta identico: la convinzione di trovarsi dalla parte giusta. Qualunque sia lo scontro che si profila all’orizzonte o che, al contrario, si vorrebbe negare o almeno smussare, ciò che è sicuro è che noi ci troviamo dalla parte giusta, dalla parte dei buoni, dei feriti. Noi siamo le vittime, noi siamo Charlie.

Noi siamo pacifisti in un mondo sempre in guerra; noi siamo musulmani democratici in un mondo che associa l’Islam ad Al Qaeda; noi siamo liberali, democratici, accoglienti e antirazzisti in un mondo che invece sembra richiudersi nell’orgoglio ferito delle piccole patrie identitarie; noi amiamo in un mondo che si costruisce sull’odio; noi siamo gli elettori che votano politici incapaci di prendere posizioni condivisibili di fronte ad avvenimenti del genere, o anche solo incapaci di mostrarsene all’altezza; noi siamo quelli che si indignano perché i governanti non si curano delle periferie, perché vi lasciano crescere l’odio e il disagio che spingono i giovani a partire per le crociate del nostro secolo; noi siamo quelli che riempiono le piazze perché nelle piazze ci riconosciamo, troviamo chi ci ricorda, dati alla mano, che siamo dalla parte giusta e che fuori c’è un mondo che non funziona, perché non fa quello che noi vorremmo. E la nostra voce, nel ripetere vecchi e nuovi slogan, non esita mai, è forte, stentorea.

Ecco. Di fronte ad avvenimenti come quelli di questi giorni, è così facile riconoscere da che parte stia il torto che non ci poniamo neanche il problema di chiederci dove risieda la ragione. Tanto siamo sicuri nel prendere una posizione netta, ferma, di fronte alle tragedie, agli attentati, quanto siamo tranquilli di non essere effettivamente implicati in quanto è accaduto e continua ad accadere. Eppure, io credo, la risposta, oggi urgente e necessaria, a domande come “perché questo accade?” o “quando finiranno le stragi?” non può passare che da una presa d’atto che i responsabili di questa situazione non sono solo gli altri, ma siamo anche noi. Abbandonare ogni autoassoluzione, sottoporre al dubbio i modi nei quali, quotidianamente, traduciamo in condotta di vita i principi che con tanta forza sappiamo rivendicare sulle bacheche dei social network o per strada: questa dovrebbe essere la nostra reazione. Invece che confortarci vicendevolmente con tonnellate di articoli che ci ricordano che la nostra costituzione ripudia la guerra, che la libertà d’espressione è un diritto inalienabile, che la fratellanza tra i popoli e tra le religioni è il faro che guida le nostre coscienze, preoccupiamoci d’interrogare i nostri errori, le nostre mancanze, i nostri torti. Invece che parlare in nome di tutti – dei francesi, degli occidentali, dei musulmani, dei democratici, di chi vuole un mondo più libero e più ricco d’amore – preoccupiamoci di capire chi siamo noi, dove ci collochiamo, cosa facciamo.

Osservare le tragedie schierandosi dalla parte di chi è stato ferito è doloroso, ma anche rinfrancante. È l’esercizio più facile. Meno facile, invece, ma sicuramente più produttivo, sarebbe guardare a questi orrori chiedendoci se il fatto di non essere terroristi e di condannare qualsiasi atto di violenza perpetrata in nome della religione o di un’ideologia basti per non collocarci dalla parte del torto.