Neanche il tempo di leggere le numerose classifiche e liste di fine anno per aggiornarsi sulle uscite più interessanti del 2014, che una nuova stagione parte in volata per un’altra tappa d’esordio verso destinazione ignota. Gennaio è sempre il primo scoglio per la realizzazione dei migliori propositi: c’è chi spera in una lunga vacanza in qualche isola sperduta del Pacifico, chi vuole smettere di fumare, chi ambisce a un nuovo lavoro, chi vorrebbe soltanto continuare con la propria vita in santa pace… E noi? Beh, tra le tante cose belle che speriamo di ricevere in regalo da questo nuovo e apparente inizio c’è la musica nella sua forma più alta e anacronistica: il disco.

Col 2015 parte anche questa nostra rubrica: ogni mese selezioniamo per voi le cinque migliori uscite, ogni mese cinque dischi nuovi e scintillanti tutti da ascoltare. Per non farsi trovare impreparati a dicembre. Non è stato un compito facile quello di gennaio, vista la quantità notevole di lavori importanti. E, infatti, ecco i primi esclusi illustri dell’anno: gli scozzesi Belle and Sebastian, il cui Girls in Peacetime Want to Dance arriva dopo cinque anni dal predecessore, e i nostrani Verdena, anche loro di ritorno dopo un lungo silenzio – Endkadenz vol.1 è uscito il 27 gennaio.
Comunque sia, se un buon anno si vede dal principio, questo 2015 promette bene.

Ghost Culture – Ghost Culture

James Greenwood, in arte Ghost Culture, è un ventiquattrenne di Londra il cui bellissimo e omonimo disco d’esordio è stato pubblicato a inizio 2015 dalla Phantasy Sound, etichetta indipendente londinese che propone elettronica in tutte le salse. L’anno scorso era stato East India Youth a rimpolpare le file albioniche delle cosidette one man band, ma a differenza di questi, Ghost Culture si rivela più saturnino. Le dieci canzoni presenti nell’album sono un insieme di bassi sintetici, tastierone anni Ottanta, riverberi e beat elettronici – scordatevi le chitarre: Mouth ricorda il migliore Caribou, i sintetizzatori sinistri di Giudecca e Arms i New Order e il Badalamenti di Twin Peaks, il tutto condito con dinamiche simili a quelle degli LCD Soundsytem – ascoltate Answer. Nominato disco del mese da Rough Trade, Ghost Culture è una piacevole sintesi tra l’intimità di un ascolto serale e la colonna sonora di una festa in inverno. Uno splendido inizio d’anno per un musicista fino a oggi poco conosciuto.

Panda Bear – Panda Bear Meets The Grim Reaper

Panda Bear è invece lo pseudonimo che Noah Lennox, colonna portante degli Animal Collective, ha scelto per il suo progetto solista. A quattro anni dall’uscita di Tomboy, disco che conteneva alcune gemme come You can Count on Me, il Panda è tornato più in forma che mai con questo Panda Bear Meets The Grim Reaper, lavoro incentrato sul tema della morte e che rappresenta senz’ombra di dubbio l’apice del suo percorso solista. Ascoltando canzoni come Mr.Noah o Butcher Baker Candlestick Maker, la domanda che sorge spontanea è: da dove proviene questa musica?. E ancora: come è possibile elaborare melodie così esasperate pur restando pop? Allo stesso modo di un segreto rivelato ma non compreso, la musica di Panda Bear è sempre la stessa – una giungla di allucinazioni sonore, una psichedelia esotica e colorata con melodie di voce che ricordano i Beach Boys – ma il risultato risulta più coeso e meno soffocante dei predecessori. E poi, che dire, Tropic of Cancer, la canzone più distesa del disco, in alcuni passaggi ricorda Il cielo in una stanza. Sarà dura escludere questo album dalle famigerate liste di fine anno.

Sleater-Kinney – No Cities To Love

Dopo una pausa a tempo indeterminato durata pressoché una decade, le Sleater-Kinney, storico power-trio al femminile, ritornano con il disco migliore che abbiano mai registrato. Cresciute e formatesi nella scena musicale di Olympia, la città della K Records di Calvin Johnson e di Kurt Cobain in epoca pre-Nervermind, gli elementi della loro musica sono gli stessi che hanno reso celebre questa città universitaria dello Stato di Washington: chitarre distorte, batteria pestata, attitudine punk declinata in chiave femminista e testi al vetriolo. Il disco, in controtendenza rispetto allo stilema che va per la maggiore, quello dell’elettronica sempre e dovunque, ci ricorda quanto esplosiva possa essere la formula base del rock se interpretata con la giusta personalità: dieci canzoni per poco più di mezz’ora di musica che spiana la strada verso un anno che si preannuncia ricco di soddisfazioni per le Sleater-Kinney.
Ecco un ritorno che suona come uno schiaffo in faccia a tutti coloro che le davano per finite. E poco importa se la chitarra di Bury Our Friends ricordi pericolosamente una celebre canzone dei Black Keys, Tighten Up.

Viet Cong – Viet Cong

La Jagjaguwar è una delle etichette indipendenti migliori del momento. Se l’anno scorso aveva pubblicato dischi di artisti del calibro di Sharon van Etten, Foxygen e Angel Olsen, quest’anno ci prova con i canadesi Viet Cong. Riusciranno a guadagnarsi l’attenzione della scena?
Come il nome suggerisce, i Viet Cong sono un gruppo di resistenza, che non si è fatto piegare dalla morte del frontman della formazione precedente – i Woman – e che non si piega alle facili logiche di chi potrebbe definirli come l’ennesimo gruppo new-wave/post-punk derivativo. A dispetto di quello che potrebbe sembrare ascoltando l’ultimo singolo Silhouettes, i Viet Cong vanno ben oltre alla classica formula della new-wave, dando vita a sette canzoni molto complesse che mescolano lo sperimentalismo dei Bauhaus (Newspaper Moon), i suoni sognanti dei Cure di Pornography (Continental Shelf) con un po’ di sana musica industriale (March of Progress). Il disco si chiude con Death, undici minuti di arpeggi ossessivi su una batteria incalzante che traghettano l’ascoltatore verso una chiusura violenta e apocalittica.
La seconda sorpresa di gennaio.

Björk – Vulnicura

Un documento sonoro di nove canzoni sulla dissoluzione di un amore, raccontato dalla parte chi l’ha vissuto, in un intervallo di tempo che va da nove mesi prima a undici mesi dopo la fine della storia. Björk ritorna con il suo lavoro più intimo, sofferto e “umano” in cui la personale ricerca artistica, sia essa sonora, visiva o tecnologica, fa spazio al suo universo emotivo. In anticipo di un mese abbondante rispetto a quanto previsto, a causa della diffusione pirata su Internet (fino al 7 marzo lo trovate solo su iTunes, dopodiché sarà pubblicata la versione fisica), Vulnicura rappresenta la terapia a cui l’artista islandese si è sottoposta a causa della separazione con il regista americano Matthew Barney.
Accompagnata dai produttori Arca e Haxan Cloak, Björk ci fa entrare, con la sua voce, in un mondo privato fatto di paure, speranze e dolore, simile a quello di ciascuno di noi. La colonna sonora di questo diario è spettrale e algida come la sua terra: gli archi, preponderanti su tutto il lavoro, suonano un requiem, mentre i beat elettronici, sapientemente inseriti, interferiscono nell’impianto classicheggiante apportando un po’ di movimento a nove canzoni che risulterebbero altrimenti poco ritmiche. I testi non risparmiano né il suo ex compagno («Fartelo dire è come mungere una pietra» in Stonemilker o «Hai tradito il tuo cuore» in Black Lake) né i dettagli intimi della vita di coppia (History of Touches).
Björk ha affermato che, con questo disco, temeva di mostrarsi troppo accondiscendente verso se stessa. È riuscita invece a fare un album che, per quanto cupo, scalda il cuore.