[Questo discorso è stato letto al convegno “La critica come critica della vita. Alle radici antropologiche e filosofiche della critica letteraria” presso il Dipartimento di Scienze umanistiche e sociali dell’Università di Sassari, 12-13 febbraio 2015]

I critici letterari, notava Serra in una pagina de Le lettere del 1913, possono dividersi in due distinte categorie: quella dei «giornalisti» e quella dei «professori»; ovvero: critica militante, o estetica, e critica cattedratica, o storica. Se dovessimo seguire questo schema dovremmo immediatamente incasellare Geno Pampaloni – e non solo per quell’accenno alla critica ‘quotidiana’, o ‘giornaliera’, che diventerà poi quasi il suo stemma araldico – nella prima categoria, quella dei critici militanti, e Carlo Muscetta, pur con tutte le sue ‘eresie’ e ‘erranze’ (L’erranza è anche il titolo della sua autobiografia in forma di lettere) – pare che, parodiando Montale dicesse «spesso il male di cattedra ho incontrato» – nella seconda. E prenderemmo, ça va sans dire, un granchio colossale. La distinzione è evidentemente troppo rozza, ed è lo stesso Serra nel medesimo saggio, solo poche righe più avanti, a precisare come ‘oggi’ – ovvero, non dimentichiamolo, nel 1913 – tale distinzione appaia troppo netta: essa aveva forse un senso negli ultimi anni del secolo precedente. Troppo rozza perché poco o nulla ci dice di quell’essere «diverso dallo specialista, dal filologo e dallo studioso della scienza della letteratura» che Fortini, in Verifica dei poteri, indicava come la qualità peculiare del critico militante; e ancor meno ci aiuta a comprendere le specificità della critica praticata dai nostri due autori.

Facciamo allora un passo verso il concreto, verso la biografia. Muscetta e Pampaloni appartengono alla stessa generazione – solo sei anni li separano: il primo nasce nel 1912 e il secondo nel 1918. La loro prima maturità coincide con gli anni della letteratura engagé e delle riflessioni sui legami tra letteratura e politica; anni in cui cultura e politica sono pensate come indissolubili, come – lo scriveva Vittorini in un articolo del «Politecnico» – «la medesima cosa, espressa con mezzi diversi». Allievo dell’antifascista Luigi Russo, Muscetta ne abbraccia e sviluppa lo «storicismo integrale» con un’attenzione costante a De Sanctis, soprattutto, facendone propria l’ispirazione etico-politica. Non a caso, il primo degli  Studi muscettiani sul grande storico esibisce in esergo una citazione da Letteratura e vita nazionale di Gramsci (pubblicato in Italia nel 1950) volta a enfatizzare come la critica di De Sanctis fosse sempre «legata a una lotta culturale», piena di «quel fervore appassionato dell’uomo di parte, che ha saldi convincimenti morali e politici, e non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli». A questo programma culturale e politico Muscetta sempre rimarrà fedele, fino a Il giudizio di valore: pagine critiche di storicismo integrale del 1980. È qui che Muscetta parla – e depreca – sia  la nascente critica iperspecialistica, di matrice neopositivista, sia la critica en artiste  del  «critico ludens», che «si esibisce in giochi di prodigio e di prestigio». Sono, queste, due tendenze critiche opposte che hanno tuttavia alcuni denominatori comuni: neutralizzano il rapporto vitale tra testo e mondo, tra testo e storia, e si sottraggono al necessario giudizio di valore. La polemica, tutt’altro che sterile, in realtà già lucidissimamente vede, e denuncia, quella crisi della critica che da lì a poco più di un decennio sarà da più parti dichiarata (da Segre a Mengaldo a Lavagetto…). Ma andiamo con ordine. Il sistema teorico e metodologico di Muscetta trova una sua prima, compiuta formulazione in due raccolte degli anni Cinquanta,  Letteratura militante del 1953 – su cui vorrei soffermarmi a breve – e Realismo e controrealismo  del 1958, che riprende molti saggi del primo volume con l’aggiunta – importantissima anche per misurare la distanza di Muscetta dal marxismo più ortodosso e allineato (degli Alicata e dei Salinari) – del saggio Metello e la crisi del neorealismo. Già da questi primi saggi, il realismo propugnato da Muscetta è altrettanto lontano da ogni apologia della particolare poetica neorealista quanto dalle posizioni anguste di coloro che – uso parole sue – come l’ ottocentesco e «oscurantista Cesare Cantù» subordinano il giudizio estetico a quello politico.

Nello Ajello ha una volta commentato che il realismo ha rappresentato «uno dei feticci più squallidi, intellettualmente parlando, di cui sia stata imposta l’adorazione agli utenti della cultura italiana (…) dopo il fascismo». È innegabile che talvolta il dibattito non sia riuscito ad evitare le secche di impostazioni fortemente ideologizzate e contraddittorie cui non fu estraneo lo stesso Muscetta. Aveva certo ragione Michele Carrannante quando, recensendo Realismo e controrealismo su «Belfagor» notava una certa discontinuità, e rimproverava a Muscetta di talvolta scivolare verso una concezione meramente contenutistica del realismo. È certo vero che quel vero realismo (o ancor meglio: quel realismo di verità) che Muscetta auspicava, non era possibile ottenerlo semplicemente attraverso la «descrizione della nuda cronaca» o, sic et simpliciter, riportando i «fatti di cui è (…) protagonista la classe operaia». Allo stesso modo in cui anche oggi a mostrare un di più di realtà  sono quei romanzi ibridi che, mescolando sapientemente documento e fiction, riescono a inventare un’interpretazione del nostro presente, molto più che i libri di intervista e i reportages su, ad esempio, la disoccupazione. Il critico – e tanto più il critico militante che applica la sua riflessione alla materia viva della letteratura a lui contemporanea – è uomo del suo tempo, e la sua tempra va misurata su passione e onestà, e guardando a quelle intuizioni e quei giudizi capaci di resistere agli anni, piuttosto che agli inevitabili cedimenti, agli errori e cecità che sono propri di ogni stagione critica.  Non vale la pena nasconderlo: alcune posizioni all’interno dell’allora dominante dibattito sul realismo, nonché sulla relazione tra elites politiche e intellettuali, viste col senno di poi – del quale però, avvertiva un noto moralista, «sono piene le fosse» – possono apparire oggi anguste. Eppure il giudizio più equilibrato sull’intera stagione, mi sembra che lo abbia dato Luigi Baldacci, quando ne I critici italiani del Novecento, rilevava come, al netto degli inevitabili errori, cioè «al di là di quella che è la tendenziosità ideologica di questa pretesa», la critica di tradizione marxista fosse stata capace di «operare una proficua revisione intesa a identificare poesia e realtà e insomma portare alla superficie quel sottofondo ‘non ufficiale’ di cui lo storicismo post-crociano non è riuscito a impadronirsi pienamente». Non potrebbe dirsi più esattamente, e lo storicismo integrale di Muscetta consapevolmente tentava anche un superamento di tutte quelle – sono ancora parole sue – «letture antologiche di quadretti e di iddilii» tipiche di un certo crocianesimo deteriore. E infatti: già nel saggio del 1952 su Pavese egli individuava nei giovani critici della Cultura (su tutti, insieme a Pavese,  Petrini e Solmi) il merito di aver rivalutato l’importanza della poetica e del gusto nello studio degli scrittori, evitando però che «lo storicismo si scheletrisse  nelle formule così care ai grossolani scolastici del crocianesimo» (Letteratura militante, 136). Vorrei ora leggere un passo dell’Avvertenza in esergo a Letteratura militante del 1953: «due sole qualità vorrei che fossero riconoscibili in questa raccolta. La prima è che il singolo sapore di quegli scrittori che ho saggiati si sente ancora nel mio discorso. La seconda è che il mio è proprio di chi prende partito: più o meno apertamente ho sempre parteggiato. E il come e il quando è chiarito dalla data…».

Notiamo innanzi tutto come queste parole riecheggino quelle di Gramsci sul De Sanctis da Muscetta poste in esergo ai suoi Studi. La linea tracciata è chiara: la passione di chi prende sempre partito e l’onestà di chi non lo nasconde; e il valore prettamente storico di ogni intervento: anche quando pochi o nulli siano gli elementi destinati a durare, ogni saggio trova il suo senso come atto compiuto in quel preciso momento storico e culturale; ogni scritto – per dirla sulla falsariga di Austin – è in sé un enunciato performativo e non semplicemente constativo. Ho detto: ‘anche quando pochi o nulli siano gli elementi riflessivi del saggio destinati a durare’. Non è certo questo il caso di Muscetta (né, lo vedremo, di Pampaloni). Vorrei prendere ad esempio il saggio, contenuto in Letteratura militante, Leggenda e verità in Carlo Levi. Questo saggio del 1946 è incentrato sul ribaltamento del rapporto tra Levi e la Lucania: «Fin dal primo capitolo di Cristo si è fermato a Eboli, ci rendiamo conto – scrive – che, se ha importanza il problema com’è apparsa la Lucania a Carlo Levi, c’è un problema almeno altrettanto importante e anzi pregiudiziale: com’è apparso Levi alla Lucania». È questo primo, inaspettato ribaltamento, che permette a Muscetta di isolare l’eccentricità della prospettiva di Levi rispetto alla coeva letteratura «in cui il Mezzogiorno è protagonista»: «Mi par chiaro che la prospettiva tradizionale della letteratura in cui il Mezzogiorno è protagonista, nel libro di Levi è capovolta. In Verga, in Alvaro, in Vittorini è sempre uno della ‘tribù’ che parla. Vittorini con i suoi ‘astratti furori’; Alvaro con la sua assorta memoria; Verga più di tutti eloquente, col silenzio della sua grave ‘impassibilità’. Non si potrebbero citare – conclude – scrittori umanamente e artisticamente più remoti dal gusto di Levi». In poche, calibratissime parole, abbiamo già una chiave interpretativa di tutta l’opera. Ma l’iniziale ribaltamento è anche ciò che permette a Muscetta di leggere il Levi protagonista della vicenda non come cronista, ma come vero e proprio personaggio, e anzi come personaggio mitico. Insomma – e a smentire ogni accusa di un realismo inteso come semplice rispecchiamento – Muscetta ritrova nella parte creativa e mitica del romanzo, la sua parte più vitale; perché, come scriveva proprio all’inizio del saggio, «ci sono, tra i moderni, degli ingegni artistici naturalmente mistificatori, per ricchezza di dono e non per povertà simulatrice» (corsivo mio). Certo, questo riconoscimento del temperamento mitico – e quindi «antistoricistico» – della narrativa di Levi (confermato poi attraverso l’analisi del successivo L’orologio) porta anche Muscetta a deprecare la poetica «decadentistica» del suo autore, la sua sensibilità «affascinata da ciò che muore». Se il giudizio critico è ancor oggi centrato, certo non si può condividerne l’accento spregiativo. Ma poco conta: come rilevava Luperini in L’autocoscienza del moderno (2006): «centralità della concretezza materiale del testo e studio del rapporto organico che esso intrattiene con il contesto storico, necessità del commento e natura interdisciplinare dell’interpretazione, imprescindibilità del giudizio di valore e carattere intrinsecamente militante della critica: questi punti del pensiero teorico di Muscetta  sono tutt’oggi irrinunciabili» (pp. 213-214). Moltissimo si potrebbe – si dovrebbe – ancora dire sull’importanza e l’attualità del pensiero di Muscetta. Il tempo non me lo permette, prima di passare a parlare almeno brevemente di Geno Pampaloni, chiuderei allora citando i due opposti commenti di  Pavese e Vittorini sul Nostro: se il primo ne riconobbe la statura laconicamente – e affettuosamente – affermando «Muscetta è Muscetta», il secondo ribatteva con il sarcasmo dello stroncato: «Muscetta non è che Muscetta». Non possiamo che concordare con Pavese: sì, «Muscetta – ancora oggi – è Muscetta».

Al contrario di Muscetta, Pampaloni fu sempre restio a raccogliere i suoi interventi. Ne risulta quindi un quadro più disperso e frammentario: nei primi anni scrive per lo più su rivista, su «Belfagor» (fondata da Luigi Russo)  e su «Il Ponte», oltre che su «Italia libera», il quotidiano del Partito d’Azione, al quale si era avvicinato insieme ai sodali Adriano Olivetti e Giacomo Noventa (di cui, nel 1956, prefarrà Versi e poesie). Gli interessi di Pampaloni sono molteplici, così come gli autori trattati: Vittorini, Alvaro, Brancati, e soprattutto Pavese cui Pampaloni dedica tredici saggi, raccolti nel 1981  in un volume dal titolo Trent’anni con Cesare Pavese. Ancora, nei secondi anni Cinquanta: Morante, Pratolini, Soldati, Moravia. L’esperienza di critico ‘giornaliero’, sempre al servizio del lettore, troverà una sua definitiva organicità e una sua forse definitiva consacrazione nelle pagine – ancora oggi fondamentali – con i saggi Nuova letteratura del 1963 nella Storia della letteratura italiana diretta da Cecchi e Sapegno e, in seguito, con Modelli ed esperienze della prosa contemporanea nel 1987 nella nuova edizione dell’opera. Impossibile rendere conto dell’incredibile molte di recensioni, curatele, interventi e «ritratti» scritti da Pampaloni nei sessanta e più anni della sua inesausta attività sul «Giornale» di Montanelli, sul «Corriere» e «La Stampa».  Mi limiterò quindi, anche per questioni di tempo e in chiusura, a rilevare qualche peculiarità del Pampaloni critico: la sua capacità di individuare immediatamente, con giudizio netto e sicuro, la statura di un autore; si pensi, ad esempio, a come per primo, in un articolo del 1951 su «Il Ponte», Pampaloni fosse in grado di comprendere la profondità dell’esperienza umana e letteraria di Orwell; primo e  unico in Italia, se persino un lettore attento come Italo Calvino poté accusarlo di «esaltare un libellista di second’ordine». La sua capacità di condensare l’analisi su un autore in formule critiche brevi e fulminanti: una che mi sta particolarmente a cuore, nella Nuova letteratura, Mario Soldati come «diarista con personaggi»; e ancora la libertà e il coraggio di ribadire la necessità del giudizio di valore come servizio reso al lettore. Convinto che «il compito del critico è sbagliare», in realtà – come ha notato Alfonso Berardinelli – Pampaloni «non sbagliava quasi mai».

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