James Franco, californiano, classe 1978, è noto al grande pubblico soprattutto come attore. Nel 2010 con Palo Alto si è scoperto scrittore. Il suo libro d’esordio, tradotto in italiano col titolo In stato di ebbrezza (Roma, minimum fax, 2012), è una raccolta di 11 racconti, tutti ambientati nella California dorata di Palo Alto – la città in cui ha sede Facebook, per intenderci. Ma Facebook al tempo della nostra storia non esisteva ancora: sfondo dei racconti sono gli anni Novanta, quelli della gioventù di Franco (che – guarda caso – è cresciuto proprio a Palo Alto). Le sue sono storie di giovani a modo, ricchi e annoiati, ragazzi che trascorrono le proprie giornate senza grandi scopi. Il risultato sono brevi tranches de vie in cui ritornano, a distanza di pagine ma probabilmente anche di mesi, gli stessi protagonisti. La noia e il bisogno di trasgressione sono il vero motore delle azioni. Verrebbe da pensare una volta di più che tale bisogno sia il risultato dello scontro tra dirompente voglia di scoprire il mondo e ansia di doverci vivere; e forse è davvero così. I racconti, per la maggior parte, non si svolgono a scuola, e neppure di giorno, bensì durante le molte feste organizzate dai ragazzi nelle loro case, di notte, con genitori assenti, salotti devastati, terrazze dove si fuma di tutto e camere da letto dove spariscono le coppiette. Oppure in strada, ma solo per folli corse in automobile, magari a culmine di una festa. Un quadro reso famoso da una moltitudine di film più o meno recenti, spesso simili tra loro e per lo più comico-demenziali. Nei racconti di Franco invece aleggia una tensione cinica, tragica, a volte umana a volte ripugnante. Una tensione portata da una scrittura affilata, ottimamente resa in italiano da Tiziana Lo Porto.

«Ok, bene», ha detto la tettona. C’era una sola luce sull’angolo di dietro della palazzina della scuola e in parte le illuminava la bocca. M’ha fatto venire in mente le caramelle all’anguria. Le sue labbra non erano labbra da ragazza grassa; erano sottili, e di un rosa molto succoso. Ma stava sorridendo in modo un po’ strambo, da un lato solo, come se non fosse sicura di dover sorridere, ed era perché A.J. la stava guardando.

(Il Pupazzo di Pece, p. 156)

Come la scrittura sono i ritratti: feroci, terribilmente reali e anche, a volte, implacabili. Quelli che ne escono sono giovani stufi ma inquieti, capaci di alternare nelle loro discussioni temi profondi e assurdità adolescenziali. Un universo in bilico tra maturità e infanzia, dove il sottopassaggio in cui i ragazzi si nascondono a fumare è detto la “Batcaverna”. Ma un universo dove si può anche morire durante una rissa, o uccidere un passante mentre si guida ubriachi. Il tutto è reso da dialoghi elastici e ritmati, che possono ricordare una sceneggiatura cinematografica:

«Se fossi nel passato, che saresti?», chiedo a Joe.
Joe deve pensarci su. È grosso, e dalla pancia il peso gli si spande sul sedile, come fosse un sacco di plastica pieno di liquido, che si arrotola in strati su se stesso.
«Nel passato quando?», chiede, e sembra tipo un grugnito di cinghiale, una roba profonda, che viene su dalla parte spessa della gola.
«Tipo, re Artù, coi cavalieri e i cavalli».
Culo grasso ci pensa. Mi pare di sentirlo, come ingranaggi arrugginiti che cigolano mettendosi lentamente in moto, sento anche l’odore, fumo giallo che gli fuoriesce dal cranio.
«Sarei il re», dice.
«Non puoi essere il re», dico. «Nessuno è il re. È come vincere la lotteria».
«Se tornassi a quei tempi, sarei il re. E mi scoperei tutte le vergini del reame»
«Non puoi essere il re, coglione. Non puoi nemmeno essere un duca. Il solo fatto che tu l’abbia detto dimostra che non sei un nobile. Sei un paesano».

(Testa di Zucca, pp. 183-184)

Su tale sfondo, dov’è cinico persino lo sguardo degli stessi giovani sui propri compagni, balenano a volte, e in maniera quasi improvvisa, barlumi di umanità. È il caso ad esempio del protagonista di April, che sconta nella Biblioteca dei Piccoli le sue ore di pubblica utilità dopo aver causato un incidente da ubriaco, e si commuove nel ritrovare i libri che leggeva da ragazzo, prima di cominciare a disegnare organi genitali tra le loro pagine. La redenzione insomma non c’è, o se c’è dura lo spazio di una giornata. Troppo forte è la voglia di fare una bravata, di competere col gruppo, troppo forte la noia da sedare. Eppure, tra una sbronza e l’altra, i protagonisti si scoprono anche lettori, di Faulkner e di Kerouac per esempio (l’umanità dei giovani in fondo è data anche dal fatto che leggono). Il riferimento a Kerouac – per altro – qua e là è scoperto:

«Non so perché ma continuavo ad andare veloce. Come se stessi correndo da qualche parte. Forse volevo solo liberare la macchina il prima possibile da quella piovra di corpi, ma era anche molto più divertente andare veloce, dava l’idea che stessimo vivendo una qualche avventura pazzesca»

(Halloween, p. 14).

image_bookNei racconti di Franco però il viaggio non c’è più, o se c’è è un’eccezione, l’appendice etilica di una festa finita sgommando sull’autostrada. L’irrequietezza giovanile si svolge tutta nel perimetro delimitato della città, addirittura del quartiere. I nipoti di Dean Moriarty e Sal Paradise – i protagonisti del libro-culto di Kerouac Sulla strada – esistono ancora, verrebbe da dire, ma hanno smesso di viaggiare. Si direbbe anzi che si accontentano di quella stessa vita agiata che pur li ripugna, e da cui traggono il bisogno di avventure forti. Con la convinzione forse après coup – come dice l’epigrafe scelta da Franco per il libro e tratta da Proust (sì, Proust!) – che «l’adolescenza è il solo tempo in cui si sia imparato qualcosa».

James Franco, In stato di ebbrezza, traduzione di Tiziana Lo Porto, Roma, minimum fax, 2012, pp. 208, € 14.