Se gennaio era stato un mese ricco di promesse e novità, febbraio – purtroppo – scappa via senza essere altrettanto incisivo. Ma questo non scoraggia la ricerca della Balena, alcune ottime uscite musicali comunque ci sono, basta cercarle. Questo freddo febbraio, tra l’altro, è stato riscaldato dall’inaspettata notizia del prossimo ritorno dei Blur, a distanza di dodici anni da Think Tank, e di Sufjan Stevens.

Ma ora veniamo a noi.

Ibeyi – Ibeyi

Cosa accade quando due gemelle di origine cubana, trapiantate a Parigi, cresciute con la musica soul e educate dalla madre venezuelana alla tradizione Yoruba, pubblicano un disco con la più rinomata delle etichette britanniche? La schizofrenia, verrebbe da rispondere. Invece, ascoltando questo loro primo album – l’ep di esordio è dell’anno scorso – è difficile non lasciarsi impressionare dalla sintesi perfetta dei diversi elementi che hanno accompagnato e contraddistinto la biografia delle due ragazze, neanche ventenni. Nello loro musica infatti non c’è nessuno scontro tra le lingue (inglese, yoruba, un po’ di francese) o gli stili utilizzati – soul, gospel, jazz, musica tradizionale, elettronica –, tutto viene risolto e processato con semplicità disarmante.
Il risultato, ipnotico ed eccentrico, è un lavoro che può ricordare in parte Björk, per alcune armonie vocali (ascoltate Ova), o il compianto Child of Lov per certi arrangiamenti elettronici (River). I testi delle due sorelle ruotano, tra le altre cose, attorno ad alcuni avvenimenti drammatici della propria famiglia, come la morte del padre (Mama Says), percussionista nel giro dei Buena Vista Social Club, e quella della sorella maggiore (Yanira), dando forma a un’atmosfera mistica simile a quella della «tradizione degli spirituals americani». Con questo disco le Ibeyi sono riuscite a costruire una casa, non di mattoni ma di intrecci vocali e ritmiche ancestrali, un luogo del ricordo in cui è piacevole essere silenziosi ospiti.

Father John Misty – I love you, Honeybear

A tre anni dal debutto – Fear Fun –, il barbuto bohémien Father John Misty, pseudonimo sotto le cui spoglie si cela l’ex batterista dei Fleet Foxes Joshua Tillman, ritorna con un disco destinato a segnare il suo percorso solista (e pure questo 2015). Incentrato quasi interamente sul rapporto con la moglie Emma, I love you, Honeybear racconta, in chiave ironica e anticonformista, le virtù, i difetti e i vizi di un uomo nel relazionarsi con la sua donna, in una storia d’amore sul cui sfondo compare l’America degli eccessi e della crisi finanziaria. Le undici canzoni oscillano tra atmosfere elettro-folk e chitarre lisergiche nelle quali la voce di Tillman accompagna l’ascoltatore attraverso una storia in cui l’io narrante si confonde spesso con la biografia personale del cantautore. L’impianto tradizionalista – chitarre, basso, batteria e tastiere – trova eccezione in True Affection, canzone in cui l’uso degli strumenti “sintetici” sembra giustificarsi dal testo incentrato sull’uso della tecnologia nella comunicazione tra le persone.
Nel disco troverete tutto l’universo di Tillman, dalla vena palesemente polemica del primo singolo, Bored in the USA, che è stato presentato in un’esibizione surreale al David Letterman Show e che irride il ciclo americano nascita-consumi-debito giocando con il motto «Born in the USA»; alla dolcezza e all’ironia di Holy Shit, racconto del giorno del matrimonio, o a quella di I Went to the Store One Day, in cui Tillman rievoca il momento in cui conobbe la sua futura moglie e immagina un futuro nel sud degli States con sette figlie a carico. Un artista da seguire, non c’è dubbio.

Bob Dylan – Shadows in the Night

A pochi mesi dall’uscita di The Basement Tapes, quello che era stato definito agli inizi degli anni Settanta come «il più famoso disco mai pubblicato», il menestrello d’America ritorna con un disco in cui interpreta dieci brani del Grande Canzoniere Americano, un repertorio di classici che ha fatto la storia della tradizione a stelle e strisce e su cui si sono confrontati, in epoche diverse, i più importanti interpreti statunitensi, tra cui colui che le rese più celebri di qualsiasi altro, Frank Sinatra. Proprio quest’ultimo rappresenta, secondo Dylan, «la montagna da scalare», la voce con cui ogni cantante deve fare i conti, come raccontato alla rivista per pensionati AARP nell’unica intervista rilasciata per la promozione di questo lavoro.
Se è difficile immaginare la voce fragile e rauca di Dylan interpretare questi pezzi con la forza e la precisione di illustri predecessori, Shadows in the Night colpisce proprio per la semplicità quasi antitetica rispetto ai tradizionali e pomposi arrangiamenti orchestrali, per il fantastico pedal steel della chitarra solista – il disco è stato suonato dalla live band che accompagna il cantautore – e per l’impercettibilità, qui esagerata, della batteria. Un disco di canzoni eterne, «che al vizio sostituiscono la virtù» e che da questo mese possono vantare il matrimonio con uno degli artisti più importanti del Novecento.

John Carpenter – Lost Themes

John Carpenter, il famoso regista americano a cui si devono alcuni dei più importanti film horror della storia del cinema, ha pubblicato, alla veneranda età di sessantasette anni, il suo primo disco. Tuttavia, Lost Themes non rappresenta né un vero e proprio esordio come compositore (parte delle colonne sonore dei suoi film portano la sua firma), né tantomeno una collezione di “temi” già utilizzati in precedenza. Questo album, infatti, è stato concepito come un esperimento, quasi ludico, tra il regista e il figlio che l’ha aiutato, per dar vita a una raccolta di temi indipendenti l’uno dall’altro, che potrebbero ispirare colonne sonore e film futuri.
E Carpenter si dimostra molto bravo: le canzoni, per quanto ripetitive nelle atmosfere cupe e sinistre che le caratterizzano, hanno un’alta potenzialità evocativa, forse perché risultano incomplete. Si ascolti, per esempio, Domain: difficile non associare la melodia portante all’immagine di un personaggio ignaro del pericolo che sta per manifestarsi. Va precisato, inoltre, che questo lavoro è soprattutto una dichiarazione d’amore ai sintetizzatori, onnipresenti e volutamente freddi nel replicare i suoni di altri strumenti. Le canzoni che sembrano complete, come Vortex e Night, costituiscono un traguardo di tutto rispetto per Carpenter che è riuscito a declinare il suo immaginario orrorifico in musica.

Duke Garwood – Heavy Love

Duke Garwood, bluesman londinese dal tocco nervoso e ipnotico, dà alla luce la sua quinta fatica, Heavy Love, a pochi giorni dai tre concerti in Italia del suo mentore Mark Lanegan, in cui sarà impegnato come spalla del cantante degli Screaming Trees, dopo un anno di “apprendistato” passato in sua compagnia.
Misterioso e irrequieto al pari del suo maestro, con il quale condivide il dono di una voce profonda e calda, Garwood è un chitarrista solitario e intenso, innamorato del suo strumento al punto da dare l’impressione che tutto il resto divenga superfluo – dal vivo è così preso dai suoi giri che sembrerebbe poter andare avanti tutta la notte a inseguire i suoi fantasmi.
Nonostante il produttore Alain Johannes sia riuscito ad allargare l’orizzonte del disco rispetto ai lavori precedenti, Heavy Love ruota interamente attorno alle note pizzicate della sua chitarra, in un’atmosfera sospesa e rarefatta che non lascia mai spazio a sorprese stilistiche.
Un disco lineare e piacevole in cui le prime due canzoni, Sometimes e Heavy Love, rappresentano l’apice della musica psichedelica e sensuale che Garwood può raggiungere nei suoi momenti più riusciti.