Berlinale 2015. Già un’ora e mezza prima della proiezione in replica di Knight of Cups una lunga fila si dispiega di fronte alla biglietteria del Friedrichstadt-Palast. I biglietti messi a disposizione online sono esauriti da giorni, e l’unica possibilità di aggiudicarsi un posto è affrontare l’ordalia del botteghino. Tra noi poveracci in coda serpeggia nervosismo, e i ritardatari guardano torvi i fortunati nei primi posti: saranno loro ad aggiudicarsi l’ambito biglietto, e a scapito di chi? A lato della fila vediamo altre persone in attesa, volti distesi e un caffè o un panino in mano. Saranno quelli già in possesso del biglietto, mugugna qualcuno. Un bagarino si avvicina sventolandoci dei biglietti sotto il naso: “Sixty euros, sixty euros”, annuncia. Subito viene respinto a male parole da qualcuno, ma poco dopo lo vediamo intento a parlamentare con due ragazzi. Che sia riuscito a piazzare la preziosa merce?

A mezz’ora dalla proiezione le porte della biglietteria si aprono, e la gente in coda si riversa diligentemente all’interno. Non solo riusciamo ad accaparrarci un biglietto, ma troviamo pure un posto a sedere in posizione sorprendentemente ottimale. I posti sono quasi duemila, e lo schermo è immenso. La condizione ideale per un film di Malick. Ma ecco che le luci si spengono. Buio in sala. Comincia.

Recensire un film del regista texano è sempre compito stimolante e arduo; a maggior ragione con questo Knight of Cups, la sua opera più ermetica e, probabilmente, meno riuscita.
Di cosa parla il film? Difficile dirlo. Il protagonista è Rick, interpretato da Christian Bale, che di mestiere fa lo sceneggiatore a Hollywood. E di grande successo, pare. Noi spettatori, comunque, non lo vediamo scrivere una riga in tutte e due le ore di pellicola. Tutto quello che fa è camminare: per Los Angeles, per Las Vegas, per innominate terre desolate. Mentre cammina, ricorda. Ricorda l’infanzia, le corse in spiaggia, i giochi sull’altalena. Ricorda il fratello un po’ borderline, e il difficile rapporto col padre. Soprattutto, ricorda le mille donne della sua vita, le relazioni più o meno fugaci, gli amori più o meno intensi e importanti.
Tutto ciò non ci viene presentato in modo narrativamente tradizionale, ma, e basta guardare un secondo di trailer per immaginarlo, tramite quello che è oramai diventato lo stile Malick: flash, frammenti, scampoli di passato e di futuro affastellati senza apparente coerenza, attraversati dalla (qui davvero onnipresente) voce over e avvolti da una colonna sonora morbida e suggestiva. I dialoghi sono rarissimi, e comunque spesso fuori sincrono rispetto alle immagini, oppure immediatamente sfumati per lasciare spazio alle riflessioni interiori.

Un elemento di contrasto rispetto ai due film precedenti (con cui comunque condivide numerose affinità, tanto da far parlare di trilogia), è la suddivisione del film in capitoli, ognuno vagamente dedicato a un personaggio, una situazione, un’atmosfera. Questi otto capitoli di cui il film si compone sono ispirati alle carte dei tarocchi: ed ecco che abbiamo la Luna (protagonista una giovane e superficiale amante), il Giudizio (impersonificato dal personaggio di Cate Blanchett, forse l’unico vero grande amore di Rick), la Sacerdotessa (una spogliarellista conosciuta a Las Vegas) e così via.
Il titolo stesso del film si riferisce alla carta del Cavaliere di coppe, il quale rappresenta cambiamento, slancio amoroso, velleità artistiche, ma anche noia, sconsideratezza e difficoltà a comprendere il reale. Così, Rick passa da una donna all’altra, incapace di stabilire un rapporto stabile e duraturo, sempre alla ricerca di un qualcosa che neppure egli stesso è in grado di identificare.

In Rick troviamo echi di Marcello Rubini e Jep Gambardella, ma anche l’apatia degli inquietanti personaggi di Bret Easton Ellis (con i cui romanzi il film condivide ambientazione e, in parte, atmosfere). Tuttavia, al contrario di quanto accade con questi illustri predecessori, in Knight of Cups il miracolo non si compie, e questo personaggio stanco e sconfitto non riesce ad assurgere a convincente modello di antieroe schiacciato dalla vacuità del vivere. Se Marcello ci risulta indimenticabile nel suo conflitto interiore tra profondità e superficialità, e ci commuoviamo di fronte alla struggente resa di Jep, in Rick troviamo solo un personaggio vuoto, incapace di suscitare alcuna empatia. Certo, anche gli oscuri eroi delle pagine di Ellis ci appaiono distanti e piatti (chi potrebbe provare comprensione o simpatia per l’american psycho Patrick Bateman?), ma l’intento dell’autore californiano è proprio quello di creare un agghiacciante teatro dell’orrore recitato da maschere spersonalizzate, obiettivo che Malick certo non si pone.
Probabilmente il particolare stile con cui è girato il film non favorisce l’identificazione – il non vedere mai il protagonista dialogare con gli altri personaggi non aiuta certo a stabilire un rapporto empatico –, tuttavia c’è da dire che lo stesso meccanismo nei film precedenti funzionava, soprattutto in The Tree of Life: il capolavoro del 2011 non cercava l’immedesimazione con il personaggio di Brad Pitt o quello di Sean Penn, quanto lo stupore e la commozione di fronte all’immensità dell’esistenza, che sia quella dell’universo o di una famigliola americana degli anni Cinquanta, che Malick pone sullo stesso piano di importanza e grandezza.

Anche in Knight of Cups Malick cerca di suscitare un senso di sublime, dando alla vicenda caratteri cosmici (all’inizio vediamo alcune visioni della Terra dallo spazio) e trattando con stile sempre alto e solenne le ben triviali vicende di Rick, che siano l’ennesima festa in villa, la gita a Las Vegas o le frenetiche frequentazioni con donne stupende: la macchina da presa di Emmanuel Lubeski (autore del piano sequenza di Birdman, tanto per capire cosa sia in grado di fare questo signore), danza attorno ai personaggi, donando loro quel carattere ieratico che solo nei film di Malick sappiamo trovare. Tuttavia, anche dal punto di vista visivo, il film non riesce a raggiungere le vette dei film precedenti, mostrando un poco di stanchezza in quelle soluzioni visionarie che hanno invece reso The Tree of Life un capolavoro dei nostri tempi: alcune recensioni da Berlino, per lo più negative, hanno addirittura parlato di autoparodia. Il giudizio è certamente eccessivo, tuttavia è lecito ritenere che Knight of Cups non sia all’altezza del tanti capolavori che il regista texano ha saputo regalarci.

Una cosa è però innegabile: mai Terrence Malick ha dato l’impressione di essere in qualche modo disonesto o calcolatore, e rimane intatta la struggente sincerità con cui ci parla di amore, morte ed esistenza. Ed è per tale motivo che questo artista del sublime, capace di girare film che non assomigliano a niente altro nella storia del cinema, merita sempre e comunque la nostra fiducia, e ogni sua opera, anche quella che ci appare non del tutto riuscita, rimane un appuntamento da non perdere. Rigorosamente nel ventre oscuro di una sala cinematografica.

Knight of Cups (Usa 2015, Drammatico 118′) di Terrence Malick, con Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Imogen Poots