Emergo dalla lettura dell’antologia di racconti under 40 L’età della febbre, edita da minimum fax quest’anno e curata da Christian Raimo e Alessandro Gazoia, e il mio primo istinto è tornare subito alla voce dei due curatori. L’età della febbre si apre con una breve introduzione che da lontano, per brevità e andamento, può ricordare quella firmata dallo stesso Raimo e da Nicola Lagioia nell’analoga antologia La qualità dell’aria (minimum fax, 2004), che ospitava un nutrito gruppo di scrittori di età inferiore ai quaranta, molti dei quali confermatisi, prima e dopo, autori importanti dell’ultimo quindicennio (Pascale, Parrella, Trevi, Covacich, Pincio, Lagioia e Raimo stessi, andando a memoria, e poi altri ancora).

La qualità dell’aria si apriva con la presa d’atto di una letteratura all’ultima chiamata, in un contesto culturale e politico sentito come insoddisfacente, per  raccontare i primi anni Zero («[…] seppure il contesto invitasse al rifiuto assoluto o alla narcolessia, avevamo una responsabilità: raccontarlo questo tempo»)[1]. Nel segno di una militanza non integrata, anzi in qualche modo fiera della propria disgregazione marginale, i racconti di La qualità dell’aria si proponevano di scendere sul terreno della storia presente, provando a rovesciare le fondamenta retoriche della cronaca e a illuminarne i punti vuoti. La vocazione programmatica dell’antologia era d’intervento e rivelava il bisogno di «raccontare un mondo lasciato a se stesso oppure così demenzialmente rappresentato da telegiornali e fiction della domenica» (p. 6), con tutti i pregi e i difetti che ciò può comportare. Dieci anni dopo, rimane il desiderio di strappare il terreno del racconto alle narrazioni dei mass-media, nonché di sciogliere gli stereotipi piagnoni sull’Italia, «sfondo mesto per la sociologia con la lacrimuccia e il rimbrotto della tv del pomeriggio»[2]. Ma a parte la ripresa, l’auspicio palese nell’Età della febbre è quello di non prestarsi più al gioco di allora, doveroso e un po’ costrittivo, di rendere al lettore «la precisa densità di questa nostra aria, attraversata da polveri sottili e soffocanti, ma anche da improvvise correnti liberatorie» (QA, p. 8): la sfida non è raccolta e rende L’età della febbre un’antologia interessante nelle sue ritrosie e nei suoi contorcimenti discorsivi. Così, appena chiuso il libro, ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte al caso raro di un’antologia indirizzata a una rinuncia di intenti e impegni, che guarda in alto, con onestà, a un disagio di sentore montaliano («La verità è che sapevamo molto bene solo quello che non volevamo», p. 7), e che ha lasciato sullo sfondo i temi centrali del suo antenato diretto. Nella Qualità dell’aria i temi erano delineati con una qualche precisione, se Raimo e Lagioia potevano sintetizzare:

Ogni ombelico di scrittore era stato dimenticato per lasciare la luce dell’occhio di bue a: il fatuo e ridicolo capitalismo italiano, le bravate degli estremisti neri degli anni Settanta, la sinistra diventata un approdo tra mille altri, la pubblicità sulle prime reti private, le vocazioni ambientaliste, la volontà di potenza del pensiero occidentale, le occasioni mancate e forse mai avute nel passaggio tra prima e seconda repubblica, le linee d’ombra, i terrorismi, il precariato intellettuale, i viaggi della speranza e della disperazione, la macchina implausibile del controllo globale, lo strazio del sentirsi troppo attuali, lisergie, nomadismi, etiche passe-partout, conflitti shakespeariani. (p. 7)

Niente di tutto questo nell’Età della febbre, che rinnega alcuni presupposti del modello da subito: «Cogliere il presente è oggi un imperativo morale e un’ossessione continua» (p. 5). Allo sforzo dell’istantanea si sostituisce la volontà della pittura in studio, anche se non parliamo mai di affreschi o vedute a volo d’uccello, quanto invece di piccoli quadri d’interno, dotati di unità atmosferica e toni vividi, concentrati su poche figure a volte solo schizzate. La predilezione non è più per chi milita o attraversa scorticato il presente, ma per chi è rimasto indietro e non mostra di volersi, o potersi, rimettere a pari (quindi, traslando sugli orizzonti biografici degli scrittori, per i precari, per i disoccupati o per chi, nel mezzo, si trascina nello studio, da un master a un Erasmus). Il presentimento dominante, quello di «non riuscire a tenere il passo», fa il paio con l’aria di transizione che si respira nei racconti come nelle parole di Raimo e Gazoia: in un’età della crisi, dove non resta che constatare le proprie estraneità rispetto a un mondo che non dà nemmeno la soddisfazione di mostrarsi ostile, è difficile guardare in giro, osare, mentre viene più naturale rivolgersi a se stessi e fare della crisi l’oggetto stesso della letteratura.

Fino a qui, tutto bene: intendo, lo smarrimento pulviscolare nelle voci dell’Età della febbre è un dato di fatto, alcuni sono capaci di restituirlo con colori più freddi, una scrittura non sciatta e un andamento a onda lunga (penso a Vincenzo Latronico e al suo Quel sollievo), altri scelgono la strada  di una destrutturazione meno classicheggiante (Vanni Santoni con Emma & Cleo, Fare due passi di Chiara Valerio), uno solo se ne infischia. Meno pacifica è l’ultima parte della breve Prefazione, che mi pare interessante osservare da vicino. Dopo aver ribadito gli intenti atmosferici («Nelle pagine seguenti troverete undici storie che assomigliano a una quest collettiva, a delle indagini intorno a un mistero che è quello della definizione di un sentimento corale», p. 7), compare una prima nota che regge a metà ai riscontri: «C’è ben più, vedrete, di una vaga aria di famiglia tra queste storie: si tratta piuttosto di un’inaspettata comunione». A parte il fatto che «inaspettata comunione» e singolarità di un talento letterario riconoscibile fanno attrito se considerati insieme, giacché ogni bel racconto dovrebbe avere la forza per reggersi a sé in barba alle consanguineità, non sembra che ci sia tanta omogeneità: a meno di non considerarla alla luce del profilo stilistico e di un certo grigiore smaltato del linguaggio, che dà in effetti una continuità spaesante alla lettura, con pochi salti. Il buon senso, infine, prevale, e porta a pensare che non può esserci nessuna inaspettata comunione in undici autori legati da un tenue vincolo generazionale e geografico ma di età, formazione ed esperienze eterogenee, che scrivono un racconto a tema libero, senza nessun vincolo tranne quello di comporre «un racconto bellissimo» (formula che esprime un niente che è un tutto, o viceversa, e che a dispetto dell’apparenza nasconde una postura naïve ben precisa: ci torno).

Il tempo dell’Età della febbre si srotola nel segno di una condizione postuma, non ilare, sfrontata o immaginifica come poteva essere adoperata dalla letteratura postmoderna fino agli anni ’90: negli interni predominano toni crepuscolari, nonostante si dica che «il Novecento con i suoi slanci, le sue ferite, le sue buone famiglie borghesi da cui affrancarsi sia ormai lontanissimo». Torna la voglia di attenersi alla lettera: il Novecento non è «lontanissimo» (la Prefazione abbonda di superlativi più che di argomentazioni) da questa antologia, se pensiamo ancora alle censure e ai doppifondi psichici del protagonista di Quel sollievo, agli ambienti borghesi di Un posto nel mondo di Rossella Milone, con la sua protagonista ricca e annoiata in villeggiatura, che si rovescia in un giro di pagine nella ferocia di un sacrificio umano entro un rito ancestrale, addirittura l’ultimo racconto, Television version di Antonella Lattanzi, ci catapulta negli anni ’90, fra Ammaniti e altri narratori all’insegna della vecchia (nell’Età della febbre, vero, per lo più assente) velocità. Anche per questo, quando Raimo e Gazoia scrivono nella stessa pagina che «la narrazione della crisi, del post-berlusconismo, della società digitale sta ancora più indietro», non si rimane del tutto convinti che implicitamente questi argomenti siano del tutto metabolizzati dagli autori. Piuttosto, ed è il punto focale, di questi temi i partecipanti all’antologia avvertono il peso opprimente, non parlano in fondo mai d’altro, investendo gli oggetti dei loro racconti di un’aura di crisi soverchiante, al punto che il rifiuto di un’etica «con troppe maiuscole a cui aggrapparsi» si traduce in un’inclinazione alla separatezza che non vuole nemmeno, quasi mai, essere autoironica. Il discorso, alla prova dei testi, fila senza strappi, e disorienta il lettore con un effetto quasi continuo di déjà lu: non so se sia paradossale, o una conclusione inevitabile. Di certo, nell’«impeccabile paradosso» di questi narratori rimasti indietro c’è qualcosa che non torna nell’apertura dei significati: mi riferisco alla curiosa immagine di un paradosso che scatta a orologeria a confermare, appianare, accomunare (laddove, a quanto pensavo, un paradosso dovrebbe essere specifico e significare una contraddizione permanente di cui non riusciamo a disfarci). Propongo tuttavia un paradosso concorrente: alla prova dei fatti la maggior parte dei racconti proposti si inscrive entro una «narrazione dell’Italia contemporanea come terra della crisi e del risentimento senza fine» con protagonista, di solito, una «massa di sconfitti viziati e depressi» (ci sono alcune eccezioni, Latronico un po’, Sortino, e alcune esasperazioni del disegno, Carbé, Durastanti), benché nelle dichiarazioni d’ingresso Raimo e Gazoia preannuncino l’opposto. Cosa ne possiamo concludere? Come spesso nelle antologie, L’età della febbre è meno importante per ciò che dice che per come lo fa e per quanto sceglie di porre in disparte. Più inusuale è invece che essa si mostri particolarmente interessante non per un coraggio rivendicato delle scelte e delle posizioni (qui si attestava, fra i tanti, La qualità dell’aria), ma per il suo contrario, cioè per la reticente paura e soprattutto per un discorso che non si sbilancia a furia di volersi dirigere ovunque.

L’ultima pagina della Prefazione illustra bene il principio dell’ubiquità, anche se non chiarisce quanto esso sia voluto. Innanzitutto, vengono ripetuti due concetti chiave degli intenti antologici: il contesto radicalmente mutato e la (conseguente?) «ineludibile, violenta sincerità» (p. 8) che domina il nuovo ecosistema (chi è sincero? Non è detto). Subito dopo, forse collegato alla sfera di una forza governabile a fatica, appare il sostantivo del titolo: «La febbre ci mostra, fuor da qualunque fasullo intimismo, che le coscienze sono indecifrabili e le emozioni complesse, e quello che filtra è spesso più importante di quello che sta in primo piano». Eppure, la metafora rimane imbozzolata e non chiara, dal momento che non si capisce precisamente cosa indichi la febbre, se si riferisca a uno stato di minorità, a una debolezza intrinseca o a una transizione da un piano all’altro dei suoi protagonisti (che spesso, è vero, si inscrivono entro spezzoni di un romanzo di formazione, vengono rappresentati un attimo prima di oltrepassare una linea d’ombra: con le distinzioni del caso, un percorso di cambiamento è al centro dei pezzi di Durastanti, Bellocchio e Fior). L’unica evidenza ottenibile è che tutto è complicato, o meglio, che le passioni dell’Età della febbre mostrano un continuo doppiofondo di negatività che smentisce (potremmo dire per un paradosso di sconcertante regolarità) tutti gli stati d’animo, o che addirittura, invece di smentirli, arriva ad assommarli in una coesistenza: «La fragilità è anche furia, il desiderio è repulsione, l’amicizia vendetta, l’affetto voglia di annichilimento, le scelte un puro caso, la libertà paura, la sincerità volontà di persuasione». Questa frase dà molti spunti: senza soffermarsi sull’«è anche» di cui si è accennato appena sopra (e che ricorda da vicino uno stereotipo discorsivo di uno scrittore e politico che a Raimo non è mai piaciuto molto), l’impressione è che dalle contraddizioni allisciate siamo passati oltre senza accorgercene, a un territorio dove si dice tutto e il suo contrario e, quindi, non si danno confutazioni logiche al discorso. Se tutto mostra il suo profilo ignoto, a uno sguardo in profondità, quale senso dobbiamo dare alle parole, quale rapporto si dà fra gli opposti? Come si concilia l’«ineludibile, violenta sincerità» col fatto che «ciò che filtra», cioè a rigore quel che non viene dichiarato a chiare lettere e con franchezza, sia più importante? E poi, se abbiamo questa «ineludibile, violenta sincerità» e sei righe sotto scopriamo che «la sincerità [è] volontà di persuasione», dovremmo concluderne che in questo mondo nuovo c’è un’ineludibile, violenta volontà di persuasione? Più che dalle parti del New Yorker e di Granta, ci si sente prossimi alla scena di Amore e guerra (1975) di Woody Allen in cui Boris riflette sillogisticamente sull’opportunità di uccidere Napoleone.

Ma si disfano le carte in tavola ancora una volta; la Prefazione si fa piuttosto movimentata, nella sua stringatezza: «Ma nel presente ravvicinatissimo e nel futuro prossimo di questi racconti non contempliamo mai un territorio deserto: rimane piuttosto l’infinito e tenace amore per ogni forma di sopravvivenza». L’accennata vocazione al superlativo è la punta di un iceberg, poiché si inclina volentieri all’iperbole anche dove non servirebbe (un amore «infinito», il territorio non è «mai deserto», si amano incondizionatamente tutte le forme di sopravvivenza – chi può dire se questo amore tradirà anch’esso un odio incondizionato per ogni cosa dell’essere, vista la compresenza dei contrari nelle coscienze dell’Età della febbre?). Forse, però, l’amore è un desiderio di resistenza inconsapevole, una sorta di voluntas schopenaueriana aggiornata, come chiarisce il passaggio seguente: «I personaggi inventati da questi undici autori non hanno un animo sconfitto e malinconico, un’infelicità, o anche una felicità, senza desideri». Appurato che essi non sono sconfitti né malinconici (l’affermazione ha una sua coerenza e quindi si potrebbe opinare: i personaggi dei racconti hanno familiarità riconoscibili con figure di perdenti, esclusi, di falliti, su tutti in Alta marea di Carbé e Cleopatra va in prigione di Durastanti), scopriamo dopo un’attenta analisi logica che i personaggi, felici o anche infelici (di nuovo il “ma anche” declinato), non sono senza desideri: vale a dire che tutti quanti, tristi e contenti, desiderano. Su questi desideri, che, con Montaigne, vanno oltre noi stessi[3] e possono rovinarci («[i personaggi] vivono slanci che assomigliano talvolta a manie», p. 8) oppure aiutarci a tirare avanti nonostante tutto (le «speranze impreviste» cui le volontà ovviamente portano), la Prefazione si chiude.

Sono le premesse, come si è capito, ad avermi colpito più di tutto nell’intera antologia L’età della febbre anche per le trappole e i vicoli ciechi, volte a delegare le responsabilità dei curatori e pure dei lettori, sperando alla cieca in uno scarto («nell’Età della febbre non c’è progetto ma solo attesa delle novità […]. E progetto significa riflessione critica sulla situazione di partenza e individuazione di possibili scatti in avanti, nella consapevolezza che possono essere trovati solo in un nuovo modo di scrivere», Guglielmi, giustamente). Dieci anni dopo La qualità dell’aria, a un punto di saturazione commerciale e letteraria delle antologie di racconti cui siamo arrivati per tante ragioni e casualità, traspaiono le due nozioni portanti dell’Età della febbre. La prima, individuata da De Majo, è la rinuncia («è difficile sentirsi infastiditi o minacciati o provocati dai contenuti di questi testi o da una sovversione generazionale dello stile. Oppure si potrebbe ipotizzare che il dato generazionale di quest’antologia sia proprio una specie di resa, una sottrazione allo scontro»), che impedirebbe, con le sue posture niente affatto provocatorie o dirompenti, una stroncatura, genere secondo De Majo moribondo: è innegabile, in questo senso, che premettere tutto e il suo contrario ai racconti antologizzati sia un modo arguto di mettere le mani avanti, parare tutti i possibili attacchi, prevenire le interpretazioni, e che perciò L’età della febbre da questo punto di vista funzioni perfettamente. Mi pare che il contrappeso alla rinuncia, imprescindibile da essa, sia il desiderio senza condizioni delineato nella Prefazione.

Perciò colpisce che il racconto più bello dell’Età della febbre, Il casco verde di Paolo Sortino, rovesci gli assunti desideranti dei prefatori. Anche se il sentore di trovarsi di fronte all’unico grande scrittore del gruppo (e della sua generazione, in generale), in mezzo ad alcuni buoni scrittori e altri un po’ meno, è dato per lo più dalla capacità di scrivere e soprattutto di pensare in grande, di organizzare le scene e le architetture narrative in modo agile e coerente senza bisogno di artifici troppo a vista, dall’avere un’idea di stile importante e una prosa di imprevista ricchezza, in direzione contraria alla prosa restante sentita da Ghezzi «come “tradotta”, scarnificata, spolta [sic] da qualsiasi artificio, con pluridimensioni omogeneizzate dalla fluidità dei racconti», nel Casco verde ci colpisce in principio il racconto di una rivolta dei bambini di Avezzano, uno scenario impossibile aperto da una strozzatura del tempo su se stesso («Dal bosco s’alzò un vento forte e le farfalle tornarono nei bozzoli», p. 236): nulla del racconto di formazione, dello spaccato generazionale o della narrazione della crisi abita in questa perversa, ridicola utopia. I bambini di Sortino, vicini, più che al Signore delle mosche di Golding, al passaggio delle Benevole di Littell in cui un disordinato manipolo di piccoli nazisti inselvatichiti scorta Maximilien Aue e l’amico Thomas dietro le linee nemiche dopo aver massacrato il loro autista Piontek (il lungo spezzone, disturbante, è nel capitolo 7 del libro, Giga), decidono consapevolmente di rigettare in toto ogni senso morale e sterminare tutti gli abitanti sopra i sedici anni per instaurare una dittatura fondata su codici primordiali e autodistruttivi di sesso e violenza (uno dei capi-bambini esemplifica in una riunione: «L’istinto è il nostro alleato. Ricordate gli adulti come sbagliavano in tutto? Ragionando», p. 260). Il racconto, dalla descrizione fredda e solenne dell’eccidio per bocca degli assassini, passa poi attraverso gli occhi di Dino, colpevole, agli occhi dei suoi coetanei, di un’intesa erotica con un adulto sopravvissuto, ridotto in poltiglia dai bambini come Piontek nella scena corrispondente delle Benevole. In un notturno visionario Dino, costretto all’esilio, dialoga con una civetta, e nella scena filosofica, che prelude a una morte fuori campo di stenti nei boschi abruzzesi, arriva a capire di cosa si sono liberati i suoi simili. La civetta spiega a Dino: «il desiderio è l’inferno dei padri come la morale lo è per i bambini» (p. 271): Sortino ci parla di un mondo dove gli abitanti si sono liberati del loro giogo più pesante (la morale) e per questo si condannano all’estinzione, persi in un delirio drogato, come suggerisce il finale desolato (quando due adulti arrivati da fuori, già esaurita la furia omicida dei bambini, hanno «la visione di un mondo assurdo, feroce, del quale non sapevano dire se i ragazzini fossero le vittime o i carnefici», p. 275). Così facendo, nell’implicito parallelismo col mondo degli adulti, Sortino ci restituisce una realtà inedita, intimamente familiare, dove il desiderio (qui provato dall’amante di Dino) è una mostruosità necessaria non meno della morale, una sentenza di morte che tutti, facendoci strada nell’oscurità, dobbiamo tenere a mente per vivere. Non è probabile che Sortino abbia tenuto presente la Prefazione all’antologia nello scrivere il suo racconto. Resta indubbio però che certe opere, pur con alcuni difetti di eccesso e di lirismo nel caso del Casco verde, disattendono i presupposti più cautelosi, le poetiche più ecumeniche, e possono riscattare, se non un intero volume, anche un solo lettore con la forza di un talento che non vuole inseguire le atmosfere generazionali.

E gli altri? Ho scelto di fermarmi sulla soglia, e gli autori dell’Età della febbre non meritano liquidazioni in blocco, giudizi squalificanti, pagelle che rinverdirebbero il chiacchiericcio degli spazi-commenti. Ho cercato il puntiglio da un lato e il sublime dall’altro, distogliendo lo sguardo dai mondi possibili in cui mi potrei rispecchiare, da questi miei quasi coetanei con cui probabilmente condivido aspirazioni e linguaggi, per un limite che è mio soltanto. Non voglio andare oltre, non voglio scrivere altro perché non c’è altro di utile che possa aggiungere, non una parola di più.

età della febbre 2

 

 

 

[1] C. Raimo, N. Lagioia, Prefazione a La qualità dell’aria. Storie di questo tempo, minimum fax, Roma 2004, p. 6.

[2] C. Raimo, A. Gazoia, Prefazione a L’età della febbre. Storie di questo tempo, minimum fax, Roma 2015, p. 7.

[3] «Coloro che accusano gli uomini di andar anelando sempre alle cose future, e ci insegnano ad impossessarci dei beni presenti e riposarci su di essi, perché non abbiamo alcun potere sulle cose a venire, anzi ancor meno di quanto ne abbiamo sulle cose passate, toccano il più comune degli errori umani […] Noi non siamo mai in noi, siamo sempre al di là. Il timore, il desiderio, la speranza ci lanciano verso l’avvenire, e ci tolgono il sentimento e la considerazione di ciò che è, per intrattenerci su ciò che sarà, quando appunto noi non ci saremo più», Michel de Montaigne, Saggi, traduzione di Fausta Garavini, note e testo francese a cura di André Tournon, Bompiani, Milano 2012, p. 19.