Un uomo di mezza età sta progressivamente diventando cieco. È un insegnante di greco, sappiamo che durante l’adolescenza si è trasferito in Germania e poi è tornato in Corea del Sud dov’è ambientata la narrazione. Sappiamo anche che ha amato una ragazza sordomuta, che mentre viveva in Germania ha avuto e perso un amico che studiava filosofia, che la sorella è una cantante lirica e vive ancora in Europa.

Una donna che ha perso l’uso della parola frequenta le lezioni di greco dell’uomo che sta perdendo la vista. Di lei sappiamo che veste sempre di nero, che ama camminare a lungo e che la sua terapeuta individua la causa del suo mutismo nella morte della madre e nella perdita della custodia del figlio. Sappiamo anche che “quella cosa” le era già accaduta vent’anni prima, durante l’adolescenza, che l’ossessione per il linguaggio si era poi trasformata in una professione: la donna aveva lavorato in una casa editrice e aveva insegnato letteratura.

Non sappiamo, però, i nomi dei due personaggi che restano volti, si identificano esclusivamente con i loro ricordi e le loro espressioni. Non riusciamo immediatamente a individuare il protagonista, ci sfugge continuamente eppure ci è sempre sotto gli occhi perché capiamo, a circa due terzi della lettura del romanzo che al centro vi è il linguaggio stesso, o meglio, il senso del linguaggio e l’uso che ne facciamo nell’ostinato sforzo di comunicare, di farci capire. L’uomo e la donna, quindi, sono solo funzioni narrative che potremmo riempire con tante altre vite, tante altre storie, perché ciò che interessa ad Han Kang, l’autrice de L’ora di greco, è mettere in luce la fatica del comprendere sé stessi e gli altri e del lasciarsi conoscere. Potremmo definirlo quasi un esperimento teorico, uno scheletro semantico del rapporto tra espressione, sofferenza e linguaggio che nega e poi conferma gli assiomi basilari della comunicazione.

L’ora di greco risulta forse meno efficace, a una prima lettura, rispetto ai romanzi precedenti come La vegetariana o Atti umani perché prosciuga la dialogicità romanzesca all’osso e fa evaporare pressoché completamente la parabola della trama. Eppure, Han Kang riesce a creare un’atmosfera molto precisa, in grado di permanere a lungo nello stato d’animo del lettore grazie a immagini, sensazioni, percezioni fisiche di impossibilità e limitazione creando un’aura distanziante che impedisce una lettura immersiva favorendo, invece, un approccio cerebrale al testo. Il lettore deve trovare a poco a poco il percorso interpretativo più efficace districandosi attraverso forme e tecniche narrative diverse che vanno dalla lettera alla poesia al monologo interiore. Chi legge deve farsi strada attraverso un testo a tratti poetico, cercando di far ordine attraverso la vista offuscata dell’uomo o i silenzi della donna. Lo straniamento che pervade l’intero romanzo di Kang, infatti, sembra ricomporsi per i protagonisti attraverso la proiezione in un altro da sé – se l’apprendimento di un’altra lingua può definirsi tale, soprattutto se si tratta di una di quelle lingue che, a torto o ragione, definiamo “morte”, come il greco. L’ostinazione dell’uomo a voler insegnare il greco in Corea del Sud e l’abnegazione della donna a volerlo apprendere nonostante la propria afasia esprime il significato della ricerca personale dei due personaggi alle prese con un dialogo estenuante con l’origine stessa del linguaggio e della parola e quindi della possibilità della narrazione e dell’auto-narrazione.

Le lingue antiche configurandosi come impalcature meno ordinate e rigide sembrano prestarsi alla necessità di una semplificazione, a quella funzione quasi infantile del linguaggio inteso come autoregolazione emotiva: «Le odierne lingue europee sono il prodotto di una lunghissima trasformazione che le ha rese meno rigide, meno accurate, meno complesse» (p. 31). Le lingue, spiega l’uomo durante una lezione ai suoi studenti, sono il sintomo della condizione di una civiltà:

Il greco utilizzato da Platone assomiglia a un frutto maturo sul punto di cadere dal ramo. Nelle generazioni successive, conoscerà una rapida decadenza. Non solo la lingua, anche le città-stato andranno incontro al declino. In questo senso, potremmo dire che Platone aveva di fronte a sé il tramonto non solo della sua lingua, ma di tutto il suo mondo (p. 31).

In queste parole dell’insegnante è possibile percepire il significato meno esplicito sotteso a L’ora di greco: le parole della nostra lingua esprimono il nostro mondo e il mondo esterno inteso come Storia, società, politica, li definiscono attraverso la loro grammatica, attraverso la prossemica e le forme del non detto. La perdita del linguaggio da parte della donna non si presenta soltanto come un trauma di natura psicologica ma soprattutto filosofica, come un ritorno alla tabula rasa precosciente in cui ogni parola, emergendo nella sua singolarità da questo nulla crepuscolare, provoca un rapporto muscolare con il mondo: «Questo silenzio tornato dopo vent’anni non ha né il tepore, né la densità, né la luminosità del primo. Se in passato faceva pensare. Al silenzio che precede la nascita, ora assomiglia di più a quello che segue la morte» (p. 21) o ancora: «[…] le capitava di sognare una parola che condensava tutte le lingue dell’umanità. Era un incubo così realistico da lasciarle la schiena fradicia di sudore. Una parola che, se qualcuno l’avesse pronunciata, sarebbe esplosa all’istante, espandendosi come la materia al principio dell’universo» (p. 23).

Il greco rappresenta, inoltre, lo strenuo tentativo di un dialogo con i morti, la possibilità di proseguire la conversazione oltre la corporeità che, infatti, sembra svanire con il procedere della narrazione e è percepibile nella consistenza fisica del linguaggio stesso che evapora nell’ultima parte del romanzo. Il linguaggio delinea il nostro spazio nel mondo così come lo spazio della pagina, la voce va oltre lo spazio circoscritto del nostro corpo, lo supera sconfinando:

Anche quando poteva parlare, lo faceva sempre con un tono di voce basso. Non era un problema di corde vocali o di capacità polmonare. Semplicemente non le piaceva appropriarsi dello spazio. Ognuno occupa un certo spazio fisico che corrisponde esattamente al volume del proprio corpo, ma la voce si propaga molto oltre. Lei non voleva espandere la propria presenza (49).  

Non a caso, una delle lettere scritte dall’uomo è rivolta a un amico deceduto eppure percepito come interlocutore attivo, in ascolto, coinvolto in una tensione comunicativa contenuta in un dialogo possibile attraverso il ricordo, come rende evidente l’incipit: «Ancora non posso crederci. Tu, Joachim Gründel, morto a trentasei anni» (p.97). Soltanto i tu hanno un nome all’interno del romanzo, il linguaggio distendendosi attraverso il tempo, lo fissa, è in grado di sostituire la vista e il contatto diretti, contingenti. L’io sembra letteralmente dissolversi progredendo verso la fine insieme ai volti dei protagonisti spogliati della loro esteriorità e nudi nella viva rappresentazione della loro soggettività.

Tra i suoi numerosi strati di interpretabilità, L’ora di greco cerca infine di stabilire un dialogo tra Oriente e Occidente, la geografia della narrazione si sposta attraverso i ricordi del protagonista maschile da Seoul all’Europa, cosicché il greco emerge quasi come una lingua neutra: culla della cultura occidentale e, contemporaneamente, sponda verso un oriente che tenta di apparire sempre meno lontano.


Han Kang, L’ora di greco, trad. L. Iovenitti, Adelphi, Milano 2024, 163 pp. 18,00€