I personaggi che popolano i romanzi di Paul Auster vivono vite sospese tra la banalità e il mistero, lo squallore e la meraviglia. David Zimmer, il protagonista de Il libro delle illusioni, emerge da una lunga depressione causata dalla morte accidentale della propria famiglia attraverso l’influenza nella sua vita intellettuale della figura enigmatica di un attore di film muti. Follie di Brooklyn è un romanzo familiare a un tempo mondano e assurdo, con bambini fuggiaschi in sciopero della parola e intrighi che si dipanano nel mondo dei libri d’antiquariato. Seymour Baumgartner, protagonista dell’ultimo romanzo dello scrittore americano – pubblicato in Italia da Einaudi, nella traduzione di Cristiana Mennella, pochi mesi prima della scomparsa dell’autore – appartiene a questa stessa genealogia di figure quasi geniali e di vite quasi straordinarie. Seymour (o Sy, come preferisce farsi chiamare) è un filosofo, professore, e autore di numerosi testi acclamati: un intelletto fine e tenace, determinato a investigare gli aspetti più reconditi dei grandi enigmi dell’esistente. È anche e tuttavia un uomo fragile, sia nel corpo che nello spirito, il cui orgoglio (come uomo, anzi come maschio, prima ancora che come studioso) subisce duri colpi nelle duecento pagine del romanzo, ambientate negli anni della sua vecchiaia. Le dimenticanze e gli acciacchi tipici dell’età lo portano, già nelle prime pagine, a dimenticare una pentola sul fuoco e a cadere rocambolescamente giù per le scale del seminterrato. Più tardi, il suo entusiasmo da adolescente settuagenario lo convince a chiedere in sposa una sua fiamma recente, e a ordinare montagne di libri su Internet per poter chiacchierare con l’addetta della UPS che glieli consegna.

Il punto fisso attorno al quale orbitano le vicende è la moglie di Seymour, Anna, scomparsa dieci anni prima degli eventi del romanzo in seguito a un incidente durante una nuotata in mare. Attraverso i ricordi di Seymour, le sue riflessioni e il suo interfacciarsi ai testi della moglie – prolifica traduttrice e poetessa schiva le cui poesie Sy decide di pubblicare postume – il romanzo descrive il modo fatale in cui le loro vite si sono progressivamente fuse nel corso degli anni: una riflessione sulla vita di coppia senz’altro sentimentale ed emotiva, che riesce però a evitare i cliché e a descrivere con onestà ma anche dolcezza cosa significhi condividere con un’altra persona il proprio esistente, al punto da fare di lei una componente fondamentale della propria felicità.

Oltre ad Anna sono i genitori di Seymour, una famiglia immigrata e working class del New Jersey, ad occupare molte delle pagine dedicate ai ricordi del protagonista, formando un quadro tipicamente austeriano, insieme banale e straordinario: la madre di Sy (il cui cognome è Auster, con una strizzata d’occhio metafinzionale anch’essa molto austeriana) da orfana abbandonata e adolescente sperduta diventa capofamiglia di grande carattere; il padre fa seguire a un’adolescenza rivoluzionaria una vita rassegnata da commerciante piccolo-borghese. Baumgartner cattura non solo le vite, ma l’intero background e milieu sociale dei suoi personaggi con una nitidezza sorprendente, condensandone le vicissitudini in appena duecento pagine. Un risultato che ricorda da vicino Everyman di Philip Roth, un’altra snella panoramica della vita più o meno straordinaria di un normalissimo uomo del New Jersey.

Auster condivide con Roth, tra le altre cose, la capacità di indagare con occhio attentissimo le ironie e i giochi di potere che condizionano spesso i rapporti affettivi e famigliari. Un autore nostrano con cui ha diversi punti di contatto è poi Umberto Eco, come Auster scrittore estremamente cerebrale (nei romanzi di Eco una gran parte del tempo è spesa in conversazioni tra uomini colti; in Baumgartner, quasi tutto il romanzo segue Seymour mentre pensa e ricorda), ma al contempo interessato alla dimensione fisica e materiale dell’esistente, ai modi in cui il corpo umano dà forma e dimensione ai nostri pensieri ed alle nostre emozioni. Un passaggio chiave della Trilogia di New York descrive il protagonista mentre fa i suoi bisogni seduto sul water; le pagine più indimenticabili de La notte dell’oracolo descrivono il piacere tattile di scrivere su un quaderno di alta qualità. Non è un caso che uno degli studi filosofici di Seymour si focalizzi proprio sulla sindrome dell’arto fantasma, la tendenza irrazionale, nelle vittime di amputazioni, di avvertire dolore e fastidio nelle parti del corpo di cui sono stati privati. Una preoccupazione che combina il materiale e l’intangibile, e che per Seymour diventa una metafora del suo disorientamento dopo la morte di Anna.

Come Eco, Auster è scrittore che gioca molto coi generi letterari – tendenza non tanto visibile, questa, in Baumgartner, ma centralissima nella distopia de Nel paese delle ultime cose e nel giallo postmoderno della Trilogia di New York – senza tuttavia lasciare che i suoi personaggi si perdano nei topos e nelle trappole della narrativa più formulaica. Auster usa, in altre parole, la stranezza del fantastico o della detective fiction come prisma per gettare una luce sulla stranezza propria di ogni esistenza, e di ogni aspetto del quotidiano.

È forse in questa determinazione ad ancorare le proprie riflessioni in un ambito concreto che si rintraccia uno degli aspetti più europei di Paul Auster, che lo rende un romanziere più simile a Ian McEwan o Orhan Pamuk che ai grandi nomi del postmodernismo americano, a Pynchon o persino al DeLillo – con cui pure, superficialmente, condivide molto. Auster è uno scrittore meno neurotico dei suoi connazionali, più aulico e filosofico ma anche meno pop. Forse per questo uno dei cliché che circondano la sua reputazione letteraria è che sia un autore ben più acclamato in Europa che in patria. Un’occhiata alla lista dei premi letterari a cui è stato candidato o di cui è stato insignito rivela numerose nomination all’irlandese IMPAC, una al britannico Booker Prize, e premi francesi o spagnoli – ma nessuno dei grandi premi letterari americani, eccetto una candidatura al PEN/Faulkner, peraltro a inizio carriera. Viene la tentazione di aggiungere Auster (soprattutto se si è familiari con la sua storia personale, a tratti tragica) alla lista di quegli scrittori che vanno da Hemingway a Fitzgerald, da Poe a HP Lovecraft: scrittori che, come racconta Michael Chabon in Wonder Boys, in primo luogo hanno inventato i propri personaggi ma ne sono poi divenuti schiavi, fino al punto in cui la loro vita privata si è messa a imitare la loro narrativa. È forse Auster, come i suoi professori e filosofi, un quasi genio, a metà tra l’olimpo e la banalità? Un quasi-Roth, o quasi-Munro?

Domande morbose, e rese inutili, in ultima analisi, dal piacere a un tempo intrigante e intellettuale della sua opera. Leggere Baumgartner, in particolare, è come ascoltare l’ennesimo album di una grande band. Non è un capolavoro, né, sospetto, è stato concepito come tale. La sua composizione fa intuire una certa dose di incertezza (vedasi il finale aperto, anche per gli standard dell’autore, o il tono del primo capitolo, molto diverso da quello del resto dell’opera), influenzata, è ragionevole sospettare, dalle condizioni di salute in cui Auster versava nell’anno e mezzo precedente alla sua scomparsa. Ma ciò non rende il romanzo inutile, superfluo: è anzi un’occasione per sperimentare il talento di un grande artista capace di plasmare la propria materia in modi al contempo simili e sempre nuovi. Un’opportunità di ammirare lo scrittore mentre si muove nel proprio mezzo con disinvoltura e semplicità, in una dimensione in cui anche i passaggi più goffi (il dialogo a volte macchiettistico, le facili lamentele politiche) non fanno che dare l’idea della piena umanità di un intelletto che ha saputo contemplare l’eterna stranezza del banale – la gioia miracolosa di un picnic in campagna assieme alla propria compagna di vita – attraverso i più svariati sottogeneri della narrativa in prosa. Con un artista del calibro di Paul Auster, qualunque performance è degna di attenzione.


Paul Auster, Baumgartner, traduzione di Cristiana Mennella, Torino, Einaudi 2023, €17,50, 160 pp.