Ci saranno più di trenta gradi. Alla Mostra del Cinema di Venezia nemmeno la brezza che arriva dalle spiagge del Lido mitiga un clima decisamente torrido. Ma l’atmosfera è comunque vivace e le code ai bar sono come sempre chilometriche (per non parlare di quelle ai bagni). Il festival, alla sua 81a edizione vede il ritorno delle grandi star hollywoodiane sul red carpet, dopo gli scioperi dello scorso anno, ma si ritrovano in un ecosistema ormai irrimediabilmente cambiato, colonizzato dai divi dei contenuti digitali, presenti alla mostra tra adv, opportunità e fomo. E mentre dalla spiaggia arriva sparato il brano di Annalisa, i critici si riversano stravolti nelle sale, alla ricerca di refrigerio e di buon cinema, incuranti dell’allerta dei ragni violino.

Arrivo al Lido qualche giorno dopo l’inizio, in cui hanno esordito nelle sale un paio dei principali film di richiamo: il secondo capitolo di Beetlejuice di Tim Burton e Maria di Pablo Larrain con protagonista Angelina Jolie. Nei prossimi giorni sarà il turno di Joker: Folies à deux, secondo capitolo dell’opera di Todd Phillips, che vinse a sorpresa il Leone d’Oro nel 2019.

Trois Amies (di Emmanuel Mouret)

Ma tra favole gotiche e villain da fumetto c’è sempre spazio per le commedie sentimentali e solitamente quelle ben fatte sono francesi. È il caso di Trois Amies, opera di Emmanuel Mouret, con protagonisti Camille Cottin e François Macaigne. Il film segue le vicende di tre amiche e delle loro relazioni. Joan non è più innamorata di Victor e si sente in colpa per la scomparsa di questo sentimento, anche la sua amica Alice non prova più nulla per il compagno, ma sembra gestire meglio la situazione, recitando la parte e godendo dell’affetto del partner. Peccato che quest’ultimo abbia una relazione segreta con la migliore amica di entrambe. La trama e lo stile delle immagini richiamano la tradizione della nouvelle vague, in particolare di Rohmer: la regia passa da una relazione a un’altra, quasi a passo di danza, in uno sciogliersi e riprendersi continuo, leggero e ipnotico. La voce narrante, cara a Truffaut ma utilizzata anche da molti del suo stesso movimento, è qui affidata a un personaggio defunto, o meglio che decede durante il film, in una quasi citazione da Viale del tramonto. L’impianto da nouvelle vague risulta però più un esercizio di stile, un vezzo tutto francese che registi di commedie adottano per connettersi alla loro migliore tradizione, mentre il film, nella sua sostanza, rivela ben altra fonte di ispirazione: Woody Allen. Lo spettatore avvezzo al regista newyorkese riconoscerà subito quel modo di inquadrare i dialoghi negli spazi chiusi, tra personaggi che escono dall’inquadratura continuando a discutere, lasciando lo spettatore a fissare un corridoio. Anche l’elemento più ironico della sceneggiatura viaggia sul doppio binario Allen/Nouvelle Vague, presentando sogni in cui vengono rivelati numeri di telefoni di futuri amanti, incontri ai vernissage e weekend in campagna. Il tutto è raccontato con estrema eleganza e intelligenza, celando una sottile ma netta crudeltà in questa sorta di rebus amoroso, dove tre amiche feriscono e vengono ferite. François Macaigne, fresco della deliziosa prova attoriale nell’ultimo film di Olivier Assaysas Hors du temps – presentato all’ultimo Berlinale – qui nella parte del fantasma narratore si conferma l’attore francese più interessante del momento, interpretando un uomo fragile, che trova nella morte la comprensione dei suoi errori.

Vittoria (di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman)

Tra i film in gara nella sezione Orizzonti è stato presentato il terzo lungometraggio diretto da Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman. Si intitola Vittoria e per chi vi scrive si è trattata di una piccola rivelazione. La trama racconta di una parrucchiera di quarantanni il cui salone è ben avviato, ha una bella famiglia numerosa molto affiatata, ma da mesi è ossessionata da un sogno: quello di avere una bambina. Decide quindi di intraprendere l’iter per l’adozione internazionale, nonostante i pareri contrari di alcuni familiari ed amici. Il film ci introduce fin da subito nella comunità di Jasmine, la protagonista, tra conversazioni con le clienti nel suo salone e momenti passati in famiglia tra karaoke coi figli e gender reveal party organizzati da amici. Il suo è un mondo tutto sommato felice e positivo e Jasmine è una donna determinata che gestisce business e affari familiari con autorevolezza, ma anche grande generosità. Seppure quella della sua famiglia non sia una condizione di agiatezza, restiamo in un contesto di solida medio borghesia. Una vita che si direbbe soddisfacente e piena, se non fosse per quel vuoto affettivo che chiede di essere colmato. Cassigoli descrive la storia senza insistere troppo sull’elemento emotivo, lascia allo spettatore lo spazio di comprendere da sé un desiderio insopprimibile come quello di una nuova maternità, nonostante i tre figli. Jasmine del resto non è personaggio che suscita sentimenti compassionevoli, è donna d’azione e affronta il lungo processo per l’adozione come affronta ogni faccenda quotidiana. Tanto che in principio il suo può quasi sembrare un ostinato capriccio e per un attimo si comprende il punto di vista della comunità, che vuole rimettere Jasmine al suo posto, ricordandole la sua vita tutto sommato tranquilla. Ma più questo desiderio prende forma e si impone, più il pubblico riesce a vedere quello che Jasmine sogna e finisce per soccombere a un’emozione che irrompe prepotente verso il finale. A rendere speciale quest’opera è inoltre la sua particolare natura a metà tra fiction e documentario: gli interpreti Jasmine e suo marito hanno davvero adottato una bambina e hanno messo in scena la loro avventura. Cassigoli e Kauffman scelgono con grande intelligenza di rivelarlo solo in chiusura di film, strappando un singhiozzo anche allo spettatore più coriaceo.

Campo di battaglia (di Gianni Amelio)

Il film di Gianni Amelio apre le fila delle pellicole italiane che si vedranno a Venezia quest’anno. Il ritorno del regista calabrese è uno di quelli che pesano e la gravità si avverte anche dal tema scelto per l’ultima fatica. Campo di battaglia torna sull’immane orrore della Grande Guerra e lo fa puntando la cinepresa sul dietro le quinte del conflitto, addentrandosi negli ospedali militari in cui si ammassano corpi martoriati. Qui i medici hanno un solo compito: rattoppare i soldati alla bell’e meglio e rispedirli in prima linea. Il campo di battaglia del titolo infatti non viene mai inquadrato, se non solo nella prima potentissima scena, dove una montagna di cadaveri viene setacciata da un soldato in cerca di cibo e oggetti. Gianni Amelio in questo modo vuole ricordare come gli effetti della guerra si estendano molto più in là del terreno dello scontro, propagando il loro carico di dolore e morte. Protagonisti sono due amici dottori, Stefano (Gabriel Montesi) e Giulio (Alessandro Borghi) che esercitano all’interno dello stesso ospedale pur avendo visioni e metodi molto differenti. Stefano arriva da una famiglia importante ed è interceduto a favore di Giulio affinché non venisse mandato sul campo di battaglia. Il personaggio interpretato da Montesi crede fermamente nella guerra come dovere ed è inorridito dal numero crescente di disertori o di fenomeni di autolesionismo tra gli infermi, pronti a tutto pur di non tornare all’inferno del conflitto. Il Giulio di Alessandro Borghi, invece, è un dottore che non si arrende all’insensatezza della guerra e, in segreto, accentua le menomazioni dei feriti, affinché non possano essere più arruolati. L’attore romano ci ha abituati a uno standard recitativo molto alto, e qui affina le sue doti di attore camaleontico per restituirci il ritratto di un uomo schivo, di poche parole, ma fermo nelle sue azioni. Borghi adotta qui uno stile interpretativo essenziale, fatto di gesti misurati e sguardi raggelati, freddi e cupi come i luoghi del Trentino catturati dalla regia di Amelio. Nemmeno la fine della guerra porterà la luce in questi luoghi, sprofondati nel dramma dell’influenza spagnola, ennesimo portato dal campo di battaglia.