L’ultimo libro di Antonio Moresco comincia dalla fine: più precisamente, dalla fine del mondo. La premessa narrativa di Canto del buio e della luce (Feltrinelli 2024) è questa: la luce va scomparendo; tutto affonda pian piano nel buio. Come spesso accade nei libri di Moresco, però, una premessa apparentemente ingenua, quasi da romanzo d’esordio, viene accompagnata da una radicalità senza compromessi nell’interrogare l’immagine centrale. Diversamente da quanto ci si aspetterebbe, infatti, ciò che accade nel romanzo non è la semplice accettazione da realismo magico della premessa, ma un accerchiamento e un’indagine, secondo modalità narrative e linguistiche non convenzionali, della natura stessa del buio e della luce come aspetti fondativi della vicenda umana e non solo.

Per collocare il libro all’interno dell’opera di Moresco, bisogna tenere a mente che la trilogia Giochi dell’eternità è arrivata a esplorare l’interdipendenza tra morte e vita o, generalizzando impropriamente, l’interdipendenza tra due piani ontologici: quello della realtà di superficie visibile e vivibile, e quello di una sorta di infrarealtà o extrarealtà intuibile attraverso i sommovimenti della prima e che sembra corrispondere, alternativamente, alla realtà delle cose che non esistono ancora (le possibilità) o non esistono più (i morti) o non esistono e basta (gli oggetti dell’immaginazione). L’esplorazione dei rapporti fra questi due piani si è articolata, in Moresco, non solo nell’esperimento estetico radicale che sono I giochi, ma anche in una serie di opere che fanno a essi da corollario, come ad esempio La lucina, che distilla questa esplorazione nella forma di un romanzo breve (forse il miglior punto d’ingresso alle opere di Moresco), ma anche la piccola raccolta di articoli di giornale intitolata Il finimondo, con il suo approccio cronachistico diretto alla contemporaneità, oppure ancora Il grido, quasi una sorta di pamphlet politico-filosofico sulle minacce e le sfide globali che stiamo affrontando in quanto specie, inquadrato sempre nel rapporto fra realtà di superficie e tutto ciò che ne costituisce i tessuti organici sottostanti.

Alla luce di queste riduzioni interpretative si potrebbe pensare che Moresco faccia parte della categoria di scrittori che “scrivono sempre lo stesso libro” (eufemismo che vorrebbe rivolgersi a una certa classe di artisti e che descrive invece una certa tendenza accentrante del lavoro di critica), ma non è così: nell’opera di Moresco, infatti, si avverte sempre un tentativo di provare nuove forme, nuovi registri e soprattutto di esplorare nuovi temi, come dimostra Canto del buio e della luce. Già i tre romanzi che compongono I giochi sono animati da un movimento per cui ogni libro tenta di oltrepassare il precedente (per temi, sperimentazione linguistica, immaginario, ecc.); un movimento di cui si percepisce la continuità, certamente, senza però impedire che tutto il resto si rinnovi. In questo senso, Canto di D’Arco è stato forse l’ultimo tentativo di sfondamento da parte di Moresco: cominciando dalla città dei morti de Gli increati, il protagonista D’Arco arriva a esplorare un nuovo territorio nella terza parte del romanzo, ovvero quello della luce, portandoci già sulla soglia del libro che verrà. Canto del buio e della luce è infatti allo stesso tempo l’ultimo capitolo di un’esplorazione cominciata con Gli esordi e un possibile ingresso rovesciato nell’opera dell’autore, attraverso cui percorrerla a ritroso, dall’inizio alla fine, grazie alla coerenza tematica con i suoi lavori precedenti.

La prima impressione che se ne ha è quella di star osservando un ritratto dell’umanità al buio, in cui frammenti di storie si alternano e susseguono man mano che la luce si affievolisce sempre di più. Di questo ritratto fanno parte la narrazione dell’infinitamente piccolo espressa dai gesti quotidiani di ballerine che si esercitano al buio, di banchieri che tentano di raggiungere il posto di lavoro al buio, di infermieri che si prendono cura dei loro pazienti al buio; ma anche vicende surreali come quella dei due attori porno Sbrego e Sbrega che si accoppiano nel buio senza più capire se stanno accoppiandosi fra loro o accoppiandosi col buio, o ancora quella del condannato a morte John John, che si lamenta, in una lingua da film americano doppiato, della lentezza con cui la sedia elettrica lo sta arrostendo in assenza di luce. Ci sono poi le grandi narrazioni globali contemporanee di capi di stato e capi religiosi, in cui troviamo un Putin rinchiuso in un treno sotterraneo a concepire i suoi deliri geopolitici nel buio e un Papa tormentato da dubbi teologici che, sempre al buio, cerca di esorcizzare scappando dal Vaticano. E c’è infine una vena fiabesca, tipica di Moresco, che percorre tutte le storie intrecciandole a quella di una nonna che racconta ai suoi nipoti una fiaba nel buio e a quella di due amanti che nel buio si incontrano.

A comporre il ritratto di questa umanità, però, non sono soltanto queste (e molte altre) vicende narrate, ma anche diversi passaggi che si potrebbero definire filosofico-scientifici, fatti di dialoghi riportati, citazioni, interviste e riflessioni di scienziati (Alfio Maria Quarteroni, Guido Tonelli, Ignazio Licata, Fabrizio Tamburini, Carlo Rovelli), musicisti (Giuseppe Vessicchio), registi (i fratelli D’Innocenzo) e pittori (Nicola Samorì), in cui sembra che la voce di Moresco stesso, interna alla vicenda, cerchi di venire a capo della scomparsa progressiva della luce interrogandola come fenomeno fisico, filosofico e estetico.

Da una parte, quindi, le sezioni narrative sembrano lavorare per sottrazione, mostrando che, pur ritraendosi la fonte di tutte le energie visibili e di tutto il pensiero visibile, ovvero la luce, qualcosa al di fuori dello spettro di ciò a cui abbiamo direttamente accesso continuerebbe comunque a muoversi. Anche nell’oscurità, e cioè fuori dal campo umano della luce, fuori dal regno umano delle radiazioni elettromagnetiche percepibili dall’occhio, tutto si muove: «il buio cancella la visione del mondo ma non cancella il mondo» (p. 196). Gli esseri umani che vivono sprofondati nel buio sono posti di fronte al limite del loro territorio conoscitivo e vitale, e tuttavia, forse proprio a causa dell’essere posti di fronte a questo limite, entrano anche in contatto diretto con il territorio che li oltrepassa e che li percorre dall’interno come una vena segreta, ovvero con quel movimento che anima regni e regioni di realtà che esistono oltre e al di là dell’immediatezza dell’esperienza e della vita umana.

Su un piano parallelo, la parte filosofica sembra voler creare lo stesso effetto di straniamento rispetto ai limiti della realtà di superficie. Ora però sono le nostre griglie di interpretazione a essere messe alla prova e oscurate, e una volta oscurate a continuare a pulsare e flettersi, animate da qualcosa di più profondo: il movimento nel buio, qui, è linguistico e concettuale. Un esempio principe di questo tentativo di far avvertire i sommovimenti della lingua e del pensiero nel buio è quello del dialogo con Fabrizio Tamburini, verso la fine della prima parte del libro:

Avevo chiesto all’astrofisico Fabrizio Tamburini se c’era un rapporto tra la matematica e la luce, tra la matematica e il buio, e anche altre cose. E lui mi aveva risposo così:

“La luce è un fenomeno elettromagnetico descritto dalle equazioni di Maxwell.”

“Che rapporto c’è tra la musica e il buio?”

“Nessuno. L’assenza di luce non ha alcun nesso con i suoni.”

“Può esserci matematica in assenza di luce?”

“La matematica è un linguaggio astratto dell’uomo. Non c’è nessun legame tra luce/buio e ‘esserci’ matematico. Mi dispiace dirlo, ma è una domanda che non trova senso.”

“Si può trasformare la matematica in luce?”

“No.”

“Si può trasformare la luce in musica?”

“No.”

“Si può trasformare il buio in musica?”

“No.”

“La matematica è solo espressione del tempo della luce? È il tentativo di fermare e fissare attraverso i numeri e altro non il tempo, ma la luce? Lo so, la fisica dice che il buio totale non c’è, non può esistere, ma si può rendere matematicamente un qualche estremo confine possibile tra la luce e il buio e il buio e la luce?”

“La cosa messa così non ha senso.” (pp. 148-149)

Si può confrontare questo passaggio con il breve scambio che avviene poche pagine dopo con il pittore Nicola Samorì, le cui opere compaiono anche all’interno del libro:

A Nicola:

“La luce è assenza di colore?”

“È un punto cieco del pigmento. Non è solo il buio a cancellare la sensazione del colore, ma anche la luce, che lo gratta via. La luce è un buco, ho intitolato un mio dipinto. Ecco, le luci sono piccole ferite in un quadro.” (p. 158)

In entrambi i contesti, domande apparentemente ingenue vengono accolte con atteggiamenti differenti: da una parte le domande poste a Tamburini non si ramificano, non trovano una strada per lasciar procedere la conversazione, e anzi ne sono squalificate in quanto prive di senso; dall’altra Samorì, pur non offrendo alla domanda una vera e propria risposta, permette alla conversazione di germinare, di trovare una direzione possibile, anche se forse non logicamente cogente. In realtà anche questi dialoghi, più che vere e proprie indagini, sono narrazioni di dialoghi, o più precisamente narrazioni di diverse pratiche linguistiche in tensione fra loro: da una parte pratiche funzionalizzate (illuminate) in cui il fine del domandare è ottenere risposte corrette e acquisire potere sulla materia d’indagine; dall’altra pratiche indefinite (oscure) in cui a una domanda non segue necessariamente una risposta diretta (come spesso avviene, peraltro, nei dialoghi quotidiani, che sono generalmente sporchi, imprecisi, senza una struttura o una logica visibili) e che tuttavia, pur non producendo conoscenza nel senso letterale della parola, aprono sentieri possibili al pensiero. Questo secondo genere di pratiche linguistiche, pur mancando della sistematicità delle prime, in Canto del buio e della luce sembra voler rivendicare uno specifico modo di avvicinare la realtà e una ragione di esistere nella geografia delle nostre attività mentali – tanto che forse, sembra suggerire il libro, è da esso che dipende e scaturisce la pratica dei linguaggi di precisione: d’altronde è in risposta a una domanda oscura, ingenua e mal formulata (“che cos’è la luce?”) che si è arrivati, dopo secoli di articolazioni, limitazioni e precisazioni, alle nostre definizioni illuminate (“la luce è un fenomeno elettromagnetico descritto dalle equazioni di Maxwell”). 

Tanto nella narrazione quanto nella discussione concettuale, Moresco tenta di mettere a nudo la tensione dialettica fra il buio e la luce come momenti della vita e come momenti del pensiero, concentrandosi, però, maggiormente sul momento del buio. La luce è ciò che scompare, nel libro; il buio è ciò che resta. La luce è lo spazio del conoscibile, del percepibile, del vivibile, del normale; e il buio? Scriveva Moresco ne L’adorazione e la lotta:

Bisogna ricominciare a vivere la letteratura e la vita nel suo aspetto drammatico e infinitamente avventuroso e rischioso. C’è un diaframma di luce che chiude come una saracinesca la nostra caverna. E noi siamo accecati e bloccati perché questa saracinesca di luce rende invisibile e opaco tutto ciò che c’è dall’altra parte, perché il velo non è il buio, è la luce. Perché la luce, illuminando il mondo che c’è dall’altra parte, lo nasconde.

Costi quello che costi, noi dobbiamo attraversare da parte a parte e sfondare questa nera parete di luce. (p. 387)

Il buio è il mondo che c’è dall’altra parte del diaframma della luce: il buio è il resto della realtà, qualunque cosa sia. Questo è vero sia sul piano della vita, che sembra poter continuare a svolgersi in altre forme pur sottraendo elementi per essa fondanti, sia soprattutto sul piano del linguaggio, che traduce ambiguamente contenuti mentali dei quali conosciamo pochissimo – contenuti di cui, peraltro, tentiamo di ridurre l’oscurità limitando lo spettro dei loro significati possibili a una parentesi concordata e normalizzata per ragioni pragmatiche, che vanno dall’intendersi e coordinarsi come società al produrre tecnologia, al costruire e mantenere strutture di potere.

A questo voler continuare a pensare il reale come un territorio più ampio, con intere sezioni ancora da esplorare, si potrebbero muovere le critiche che furono mosse a Moresco da Massimiliano Parente già nel 2010, rilevando nella sua opera «un rumore di fondo consolatorio simile alla “meraviglia” per il “creato” di molti religiosi» (Il Giornale, 27 Aprile 2010). Spesso però si utilizza la categoria del consolatorio per squalificare qualsiasi tipo di narrazione che utilizzi un’immaginazione metafisica, estesa a ripensare il mondo e le sue regole, come se questo, di per sé, costituisse una forma di diserzione rispetto al coraggio richiesto per osservare la realtà come fatto nudo. Di questo voyeurismo del reale spogliato, scoperto e narrato dalla prosa nella sua nudità, il romanzo si è fatto vanto sin dalle sue origini, ma immaginare metafisicamente, come fa Moresco, non significa dover cadere nelle trappole teleologiche della religione e dell’ideologia – non significa, cioè, immaginare per poter smettere di immaginare, ma immaginare per allargare il campo, per sfondare piani, per collocare il regno del visibile all’interno di un regno più ampio: significa scoprirsi capaci di umiltà rispetto al reale, che non è affatto dato, non è affatto nudo, non è affatto lì, disponibile per essere narrato dal romanziere che abbia finalmente il coraggio di dire le cose «come stanno», perché le cose non stanno in nessun modo e il reale, in realtà, non si dà. E significa, soprattutto, in questo gesto di umiltà, riappropriarsi di uno spazio di invenzione possibile del reale.  

In Canto del buio e della luce non si vive al buio «nonostante tutto» o a «discapito delle circostanze» o come «forma di resistenza» – non si vive, cioè, in nome di qualche resilienza consolatoria lirico-umanistica degli ultimi giorni; si vive perché, anche dopo la luce e dopo il buio e dopo l’uomo e dopo la vita, il movimento indefinibile e più ampio in cui la vita stessa è inclusa non si arresta. Consolatorio è pensare che questo movimento sia tutto qui, tutto visibile, tutto per noi, e che la realtà sia un pavimento in cui siamo saldamente piantati, circondato da una stanza illuminata senza porte e con pareti troppo spesse per passarci attraverso, piuttosto che un abisso buio in cui si sta a galla agitando gambe e braccia, sprofondati fino al collo, mentre con la testa boccheggiamo inspirando l’aria di un buio più luminoso dall’abisso atmosferico sopra di noi (e da chissà quanti altri abissi sopra e sotto di esso!). Consolatorio è pensare di aver finito di pensare. E Antonio Moresco, almeno a giudicare da questo suo ultimo libro che è tutto tranne che un libro finale, non ha ancora finito.


Antonio Moresco, Canto del buio e della luce, Milano, Feltrinelli 2024, 29 €, 592 pp.