Il giorno che Inni Wintrop si suicidò,[i] le azioni della Philips erano a 149,60. La quotazione di chiusura della Banca di Amsterdam era di 375 fiorini e l’Unione marittima era scesa a 141,50. La memoria è come un cane, va a sdraiarsi dove le pare. E questo era quel che lui ricordava, sempre che ricordasse qualcosa: le quotazioni, e la luna che si rifletteva nel canale, e che s’era impiccato nel suo gabinetto perché quel giorno, nella rubrica d’astrologia che teneva sul giornale Het Parool, aveva predetto che sua moglie sarebbe scappata con un altro e che lui, leone, si sarebbe ucciso. Era una predizione perfetta.


Così inizia Rituelen, il terzo romanzo dello scrittore olandese Cees Nooteboom (L’Aia, 1933), tradotto in italiano da Fulvio Ferrari per Iperborea nel 2024. È un inizio d’impatto che può essere inserito tra le aperture di libro più memorabili della letteratura olandese, insieme ai famosi inizi delle novelle di Nescio (altro scrittore incluso nel catalogo di Iperborea). La storia descrive tre decenni ad Amsterdam (1953-1973) in un modo squisitamente ‘nooteboomesco’, in un intreccio complesso di frammenti di vite che portano alla morte. È un libro su tre uomini, Inni Wintrop (il protagonista e in parte narratore), Arnold Taads e Philip Taads, tutti profondamente infelici, che cercano a loro modo di dare un senso, o perlomeno un ordine, a un universo caotico e scevro di illusioni.

Nooteboom è indubbiamente tra i maggiori scrittori viventi olandesi, e tra i nomi più noti al di fuori dei Paesi Bassi. È lo scrittore olandese con più titoli nel catalogo di Iperborea (ben venti) e Rituali è arrivato alla sua quarta edizione (la prima edizione italiana è del 1993). Sia nella traduzione che nella postfazione, Fulvio Ferrari dimostra di conoscere bene Nooteboom, scrittore di cui ha già tradotto molte opere. La traduzione è precisa e fedele al contenuto, anche se lo stile particolare di Nooteboom a volte mi induce a preferire e proporre possibilità alternative di traduzione in questa recensione.

Nella sua lunga e molto produttiva carriera, Nooteboom ha avuto grande successo all’estero, forse anche più che in Olanda (come lo scrittore stesso ha ripetuto in varie interviste). Esordisce a soli 22 anni con un romanzo di immediato e forse inatteso successo: Philip e gli altri (1954). Quel romanzo, scritto «con più talento che senno» (secondo Nooteboom stesso in un’intervista del 1969) lo consacra ma comporta anche la conseguente difficoltà di avere una reputazione specifica e ben delineata, ragione per cui l’autore decide di ‘seppellire’ simbolicamente quello scrittore nel suo secondo romanzo del 1963 (De ridder is gestorven, non tradotto in italiano). Pubblica raccolte di poesie e resoconti di viaggio e sembra prendere le distanze dal romanzo fino al 1980, quando esce Rituali e si presenta come un nuovo e più maturo romanziere. I temi tuttavia rimangono simili: i suoi protagonisti sono spesso in cerca del paradiso (perduto o mai avuto), dell’unità con tutto ciò che esiste nell’universo, unità che non troveranno mai se non in squarci sorprendenti.

Nooteboom è un instancabile viaggiatore, cosmopolita e traduttore di libri dall’inglese, dal tedesco e dallo spagnolo, che si sposta sovente per descrivere sempre nuovi ambienti. Ritroviamo l’attenzione alle lingue anche in Rituali, che non si limita all’olandese e al dialetto di Brabant della domestica Petra, ma comprende anche altre lingue, cosa che traspare dalle varie citazioni in tedesco, inglese, francese e latino incluse come epigrafi alle tre parti in cui il libro è diviso (nella traduzione solo le citazioni in francese e latino sono rimaste nella lingua originale e il dialetto sparisce, forse comprensibilmente). Lo scrittore dall’Aia è anche sempre colui che guarda ma non appartiene all’ambiente in cui si trova, che nella sua scrittura si tiene a distanza dalla politica e dalle vicissitudini storiche, in cerca di un’universalità storica e geografica. Anche in questo romanzo la storia esiste solo per ricordare al protagonista quale groviglio inestricabile e imprevedibile è il mondo.

Alla fine della prima parte del libro, quando a Inni arriva la notizia dell’attentato a Kennedy, questa gli fa solo pensare che le borse impazziranno, ulteriore conferma dello strano connubio tra la morte e le borse con cui il libro si apre. La descrizione del profilo apolitico del protagonista è calzante anche per lo scrittore (colui che scrive, non colui che vive): «Le convinzioni politiche, di qualsiasi tendenza fossero, le riteneva forme più o meno gravi di malattia mentale, e aveva riservato a se stesso, nel mondo, il ruolo di dilettante». Nell’originale leggiamo qui letteralmente: «il ruolo di dilettante, nel senso italiano della parola». Con ciò pensiamo Nooteboom intenda «colui che trae piacere da quello che fa», ma l’altro significato, quello più spietatamente olandese, emerge anche in modo chiaro: Inni si occupa di arte come di altre cose in un modo del tutto amatoriale, senza troppe attenzioni o un occhio particolarmente acuto. Vive di rendita, scrive oroscopi e ricette per riviste e si muove tra borse e gallerie d’arte.

Rituali non procede per ordine ma tramite salti nel tempo. La prima parte del volume si intitola, infatti, ‘Intermezzo’. Come si è visto nella citazione iniziale, in questo libro la memoria prende il corpo di un cane, ragione per cui è preferibile una traduzione più letterale rispetto a quella di Ferrari: «La memoria è come un cane che va a sdraiarsi dove gli pare». Il cane rappresenta quindi la volubilità della memoria. Allo stesso modo, in Rituali il tempo è onnipresente o forse piuttosto ‘onniassente’, per la sua strana presenza-assenza innegabile ma inafferrabile, tratteggiata magnificamente da Nooteboom. Il tempo è forse il vero protagonista del libro. È un paradosso perpetuo, si posa su tanti oggetti e giace in molte metafore che cercano di reggere il peso di quel tempo che non rispetta le proprie regole, che è lineare, circolare e frammentato a suo piacere e non si lascia controllare. Oscillando tra la grande astrazione, l’inevitabile realtà della morte, e la banale ma vuota quotidianità delle borse, il tempo (come il denaro) si traduce in numeri privi di senso, in un conto che non conta nulla:

C’era un che di triste, e anche di ridicolo, in tutti quegli anni smorti che dovevano essere appiccicati l’uno all’altro per portare a termine il millennio, e in questo risiedeva anche una contraddizione: per raggiungere il centinaio – il che, nel caso presente, coincideva con il millennio – bisognava fare una somma, ma il sentimento che accompagnava questa operazione era piuttosto quello di un conto alla rovescia, come se ognuno, e più di ogni altro il tempo stesso, non vedesse l’ora di dichiarare nulle quelle cifre sempre più alte e polverose, di gettarle nell’immondezzaio della storia grazie alla rivoluzione operata da una serie di raggianti zeri dalla forma perfetta.

E le due (ir)realtà, dei numeri e del tempo, gli uni discreti e l’altro indivisibile, si sovrappongono in modo vertiginoso, trascinando con loro vite, amori, illusioni, come in un’ultima consumazione di un amore già sepolto tra Inni e Zita:

La resa dei conti, l’estinzione del debito, il pagamento dell’assenza, la definitiva cancellazione dell’amore, l’inabissarsi di tutto il tempo trascorso tra il primo sguardo alla mostra fotografica e quell’istante in cui erano ancora coinvolti gli stessi due corpi: per la prima volta cominciava a prendere forma.

Anni dopo, quando la rivedrà in una squallida camera d’albergo a Palermo, le domanderà il perché, e lei non gli risponderà, sapendo che lui sa. Ora, mentre già esiste la camera d’albergo, ma non gli anni che dovranno passare separati l’uno dall’altra prima di ritrovarsi, ora dunque tira fuori gli assegni dall’armadietto e li firma.

In questo frammento, come in altre parti del libro, traspare una tematica pirandelliana: pare assurdo che continuiamo a dare lo stesso nome a un corpo ricordato e un corpo invecchiato, ambedue cambiati dal tempo passato (uno nel ricordo, l’altro nella vita ‘reale’). Anche i tempi grammaticali e la sintassi adoperati da Nooteboom formano un vortice-vertigine temporale.

Inni, con il suo nome palindromo, è come ingabbiato in quella vacua ripetizione del tempo che scorre senza motivo. Nonostante sia vuoto, il tempo pesa, è un «oggetto massiccio e indivisibile», e a volte sembrano esserci «più minuti che acqua e aria». E Inni, figura centrale nel libro ma priva di centro (come descritta accuratamente da Ferrari nella postfazione), con una pessima memoria e una ferma convinzione che i ricordi siano la sostanza stessa della nostra esistenza, sa solo alternare tra essere trascinato dal tempo e trascinare il tempo stesso dietro di sé:

Inni Wintrop era uno di quegli uomini che si trascinano dietro come una massa amorfa il tempo trascorso sulla terra. Non era, questo, un pensiero che lo accompagnasse ogni giorno, tornava però regolarmente, e già occupava la sua mente quando aveva da rimorchiare un passato considerevolmente più breve. Non era in grado di valutarlo, il tempo, di misurarlo, di suddividerlo. Ma forse è meglio lasciar via l’articolo e, come in inglese, parlare di tempo per assegnare a quest’elemento la piena, collosa sciropposità che gli spetta. E non solo il passato rimaneva, in questo modo, attaccato al cucchiaio di Inni, anche il futuro opponeva resistenza. Uno spazio altrettanto amorfo attendeva di essere attraversato da lui senza alcuna chiara indicazione su quale fosse la direzione da prendere per venirne fuori.

Inni si trova in un mondo di déjà vu e déjà vécu: «Tutto era già accaduto. Era necessario, ogni volta, tornare a desiderarlo, ma era già accaduto».

Inni si muove perciò in un mondo insensato. Anzi: è mosso invece di muoversi liberamente e deliberatamente. Anche il tentato suicidio è stranamente staccato dalla sua volontà, in un cortocircuito dell’oroscopo in cui lui stesso predice (o prescrive) il suicidio per i nati sotto il segno del leone. Nonostante l’assoluta mancanza di decisioni e direzione nella sua vita, si vede continuamente rispecchiato negli altri personaggi in questo rapporto conflittuale col mondo e col tempo. Gli altri due uomini in cui Inni in parte si rispecchia, Arnold e Philip Taads, padre e figlio, cercano in modo altrettanto ossessivo di dominare e domare il tempo, rinchiudendosi in vari modi nello spazio sicuro e controllato della vita assolutamente regolarizzata e ritualizzata. I rituali del titolo (religiosi, spirituali, autoimposti) costituiscono un modo per vincere il caos. Arnold Taads è una specie di eremita laico, che dedica la sua vita a stabilire «frazioni arbitrariamente delimitate in quell’elemento invisibile in cui dobbiamo sguazzare per tutta la vita». Per lui il tempo è «padre di tutte le cose».

Ma è una battaglia persa, per lui e per tutti i personaggi del libro. L’onnipresenza del tempo è accompagnata da un’uguale ubiquità della morte, presente sotto varie forme, ma spesso in forma animale. Ne è un esempio un piccione morto trovato per strada e seppellito in un rito improvvisato da Inni e da una ragazza che ha visto il piccione nello stesso momento. E anche un buffet luculliano, che in un altro contesto sarebbe forse motivo di gioia, ma che qui sa solo di morte: «Affumicata, bollita, arrostita, in gelatina, rosso sangue, a dadi bianchi e neri, grassa e rosea, ricoperta d’una patina bianca, venata, pressata, macinata, affettata, la morte era messa in mostra sulla porcellana di Meissen a disegni blu».

Tutti i personaggi, come Inni, falliscono nel loro intento di trovare un senso alla vita: Arnold e Philip, in particolare, sceglieranno ambedue la morte. Il primo sarà il padre: «Era la prima volta che qualcuno raccontava a Inni Wintrop con esattezza tutti i dettagli della propria morte, benché dovesse verificarsi molti anni dopo». Il padre assente determinerà anche il destino del figlio assente: «Arnold Taads non aveva mai parlato di un figlio e così, pensò Inni, l’aveva condannato a una sorta di strana non esistenza che l’aveva infine condotto a quella forma di non esistenza definitiva che è la morte».

Mentre Arnold ha fatto del tempo la sua religione laica, vivendo una vita da recluso in un ambiente completamente e ossessivamente controllato, Philip è altrettanto eremita ed è chiamato ironicamente ‘tèista’ (theeïst invece di theïst in olandese). Il suo fascino per la cultura giapponese si manifesta tra le altre cose nell’incanto della cerimonia del tè. Secondo la citazione da Il libro del tè di Okakura Kakuzō che introduce la sezione su Philip, la cerimonia del tè rappresenta una «geometria morale, nella misura in cui definisce il nostro senso delle proporzioni rispetto all’universo». Philip si dichiara infatti «un collega di tutto ciò che esiste», adotta, in parole più moderne e accademiche, una prospettiva più-che-umana o postumana. L’atteggiamento di Philip è perciò anche più in linea con una prospettiva temporale che trascende l’umano, una scala temporale anche già presente prima, in alcune riflessioni di Inni:

In realtà lui stesso era tutto questo, perché ciò che non aveva vissuto direttamente si era però intessuto nella sua vita, in fin dei conti era il corpo che ricordava le cose per conto suo. Strani processi chimici verificatisi nel suo cervello avevano fatto sì che egli fosse cosciente dell’esistenza del Paleozoico che perciò, in un modo o nell’altro, era divenuto parte della sua esperienza, mettendolo in relazione con epoche inconcepibilmente lontane, alle quali, per lo stesso misterioso meccanismo, sarebbe appartenuto fino alla morte.

Per lo stile magistrale, gli intriganti dialoghi filosofici e il fascino dei ritratti offerti da Nooteboom, Rituali è ancora da molti considerato tra i migliori libri olandesi degli ultimi decenni. Ciononostante, una lettura a quasi 45 anni dalla pubblicazione originale evidenzia gli elementi forse meno convincenti per un lettore odierno. Si potrebbe dire che in alcuni punti si riscontri l’appartenenza del testo ad un tipo di scrittura di una generazione di scrittori in cui la presenza dell’altro (asiatico o femminile) serve soprattutto a delineare meglio la propria identità, o quella dei protagonisti. Quando Inni dichiara con una frase spregiativa di non apprezzare particolarmente la cerimonia del tè e lo Zen («I tesori della saggezza dell’Estremo Oriente venduti all’infelice borghesia occidentale»), non possiamo dargli tutti i torti, proprio sulla base di un libro come questo, in cui la presenza della cultura giapponese rimane troppo superficiale. Per questa ragione è forse fuorviante l’ulteriore enfasi posta da Iperborea sull’aspetto giapponese attraverso la scelta dell’immagine di copertina. Fortunatamente, dopo Rituali, Nooteboom ha scritto molto più e meglio sul Giappone, uno dei paesi che lo affascinano di più (in italiano si possono leggere Cerchi infiniti e Saigoku).

Anche il ruolo delle donne nel libro (o della donna, perché la pluralità è piuttosto una mera molteplicità di nomi) ha prevalentemente la funzione di facilitare la scoperta e la definizione di sé, o di causare la perdita di sé, di Inni. Inni trova un sollievo temporaneo nella breve unione (più che altro sessuale) con numerose donne, e solo Zita è una presenza più duratura nella sua vita. Ma anche lei gli farà comprendere che la sua relazione con le donne è puramente utilitaristica, in una scena a effetto in cui si fa pagare per un ultimo amplesso e lui «si spoglia con lo stesso atteggiamento di sotterfugio che ha quando va dalle puttane vere». La scena riassume bene la presenza delle donne nella vita di questi uomini dannati, da cui sono comunque immancabilmente attratte (basta il ritrovamento di un piccione morto per indurre una donna molto giovane al rapporto sessuale con Inni). Un altro frammento che coglie bene la dinamica tra uomini e donne nel libro è quello in cui Inni commenta fra sé e sé pensieri espressi da Philip: «‘Detesto la cosa che sono’. Quanto tempo era passato da quando aveva udito il padre di quest’uomo affermare ‘mi detesto’? Era insopportabile l’idea che lo stesso pensiero, attraverso una donna, fosse passato da un uomo all’altro». In questo frammento e altri simili è difficile sfuggire all’impressione che le idee e i pensieri (e i corpi) passino da un uomo all’altro attraverso la fisicità della donna che è percepita e ritratta come più vicina alla natura e, forse, ad una forma più semplice di vita e di felicità.

Nonostante queste riserve, il libro di Nooteboom è come un oscuro incanto ritmato, greve e opprimente, ma spesso di una cinica e cinerea bellezza. È un libro di motivi che ritornano, di una ciclicità senza scampo. Anche il ricordo del cane, o il cane-memoria, torna. Non alla fine del libro, ma a metà, come si addice a un libro che inizia con l’intermezzo, che a sua volta apre preannunciando la fine del protagonista che poi non arriva. Il cane non rappresenta solo la memoria, ma anche la continua presenza e il continuo presentimento della morte: «Arnold Taads e il suo cane erano già svaniti nella notte, nella pioggia, nel bosco. L’autobus, il treno, la lunga camminata per i viali di Hilversum, lungo i quali le ville si ergevano nei loro giardini come scuri mausolei». E, sempre insieme ad Arnold, il cane scandisce anche il tempo, rappresenta il soffio della vita, finché dura:

Soffio, aria: quella bestia geniale aveva imparato ad assegnare cariche emotive e affermative all’aria che ci circonda e, in parte, ci penetra; a scoprire i punti culminanti del destino e del disgusto e a non lasciarli sospesi nella massa indifferente dell’aria, preda del distruttivo battito da metronomo del pendolo, ma, in un’artistica simbiosi con il suo monocolo maestro, a colmarli di un qualcosa che era sia l’eco di quanto era appena detto sia un più leggero, o più velenoso, colpo di frusta che costringeva il solista a mantenere la tensione raggiunta.

Per chiudere il cerchio: questi suoni nell’aria fanno pensare a una poesia recente di Nooteboom, nella raccolta Afscheid (Addio) del 2020:

Ho percorso la strada più lunga, la strada

senza un arrivo. Spelonche, un paesaggio vuoto

con i colori della sabbia e della paglia. Altri camminavano

insieme a me, amici, fratelli, amanti

e tutti mi hanno detto addio, svoltando a sinistra

o a destra, sono scomparsi come spettri,

ognuno solo con se stesso. Senza voltarsi,

conoscevano la loro meta, tracciavano linee rette

nel vuoto. Le ho viste andarsene, le persone

della mia vita, uscire lentamente dalla mia

e dalla loro esistenza. Le ho immaginate finché

ancora le vedevo, sentivo le loro voci lontane,

suoni d’aria.

Rituali non è soltanto uno dei libri più belli di Nooteboom, ma un capolavoro del secondo Novecento olandese. È una ricerca del tempo mai avuto, in un mondo senza religione e senza comunità, in cui ognuno è solo con sé stesso.


[i] Adattato dalla traduzione di Fulvio Ferrari: «Il giorno che Inni Wintrop cercò di suicidarsi».


Cees Nooteboom, Rituali, traduzione di Fulvio Ferrari, Milano, Iperborea 2024, € 18, 253 pp.