L’ultima fatica poetica di Antonella Anedda, Salva con nome, ammicca fin dal titolo a una specie di programmatico riscatto dei “dati” quotidiani. La raccolta, al pari del precedente Dal Balcone del corpo, esce per Lo Specchio Mondadori, di cui è stato appena rinnovato il progetto grafico. La vecchia copertina a tema viene rimpiazzata da uno sfondo monocromo, mentre la quarta perde il frammento “autografo” in favore di una foto a tutta pagina che propone un mezzo busto bianco e nero dell’autore (al modo di altre collane mondadoriane). Il formato del libro viene poi aumentato in altezza, e in generale si perde quell’impressione da “chicca” che più si addiceva al genere poetico, sebbene nella sua versione (almeno editorialmente) più prestigiosa.
«Pochi hanno il coraggio di andarsene dal nome che hanno fino al nome che sono» (p. 7): così recita la prosa di apertura, dichiarando lo statuto ambiguo dei nomi, che sono allo stesso tempo etichette ricevute e misteriose ricettacoli dell’esperienza. L’ambiguità linguistica si traduce in una specie di imperativo lirico: la coazione a salvare con (o per) i nomi si proietta innanzitutto in una ricerca tonale, che caratterizza in modo omogeneo la raccolta e il suo sforzo continuo di raggiungere un “riscatto nella forma”. Perseguito attraverso il recupero memoriale, ad esempio dell’infanzia, o con una serie di fotogrammi che rivelano una forte vena intimista, anche quando l’interiorità è posta in secondo piano. In ogni caso il procedimento poetico della Anedda consiste in una specie di ipostatizzazione lirica, di cui colpisce il risultato quasi sempre cantabile, raffinato dal punto di vista prosodico, specie nelle chiuse (come ad esempio in un Coro del poemetto Concerto per paura, coro e voci: «Le gocce di pioggia lungo i vetri sono fiale | che il vento fuori spezza» (p. 93). Salva con nome costruisce una sorta di immaginario domestico, evocato attraverso la ricorrenza delle scene da interno e l’insistere di alcuni riti quotidiani. La raccolta si sposta dal reparto di un sanatorio (la serie Pneumologia) a una teoria di cucine, stanze da letto, camere d’albergo: sono questi gli spazi eletti delle figure poetiche, in cui convivono inerzia della contingenza e spinta verso un senso ulteriore. Da questa frizione nascono molti dei testi più a fuoco, come Cucina 2005:
Se l’avesse vista
se avesse visto la sua forma mortale
spalancare stanotte il frigorifero
e quasi entrare col corpo
in quella navata di chiarore,
muta bevendo latte
come le anime il sangue
spettrale soprattutto a se stessa
assetata di bianco, abbacinata
dall’acciaio e dal ferro
bruciandosi le dita con il ghiaccio
avrebbe detto non è lei. Non è
quella che morendo ho lasciato
perché mi continuasse.(p. 16)
Il quotidiano è il luogo dove irrompe la “minaccia” esistenziale e contemporaneamente una muraglia per difendersi dall’assalto: «scuotere dalla tovaglia la paura insieme alle briciole del pane | fare un orlo al dolore, posarlo sul mucchio dei panni da stirare | […] Contro il tempo trovammo l’arte dello spazio | la precisione che non permette alla mente di affondare» (dalla sezione Bambini, I, p. 45). Forbici, smalti, aghi e parafanghi avranno così una funzione taumaturgica, o almeno di richiamo al carattere duplice dell’esperienza. Questa fisionomia poetica, a cui contribuiscono anche fotografie e grafiche inserite come “puntelli” in alcune sezioni del libro, finisce per creare una specie di patina vintage, un cromatismo supersaturo esteso anche alle descrizioni paesaggistiche: il rischio è quello di una poesia decorativa e preziosa, che compensa una resa discontinua sul versante tematico. Le scelte singole variano all’interno di questo schema: dall’evocazione impressionistica fino a un panismo quasi “liturgico” («Il cielo le posa una benda di pioggia sulla schiena. | Una foglia gialla è una goccia d’unguento sulla fronte.», p. 34): l’Anedda spesso si compiace in una sorta di pedanteria lirica.
Una poesia che giunge ex cathedra, dove lo scarto è dato non dall’erudizione ma dal patetismo, da un’impostazione piuttosto conservativa dei meccanismi lirici.
Lo stile è sicuro ma corre di frequente il rischio di una consapevolezza eccessiva, specie quando viene meno il bilanciamento tra confezione e intensità concettuale. Al contrario, quando quest’equilibrio è mantenuto la pedanteria si dissolve: i testi migliori acquistano in rapidità, hanno più dell’impromptu che del progetto consapevole. Come Corsica 1980, una specie di fuga ritmica in cui tecnica e visione figurale si fondono senza residui.
Perché non spero eccomi nel lutto
che solo qui chiamo con questo nome.
Punta da spine di cardo vorrei stringere il b [bruciore e tenerlo
come vita.
Poiché non spero più che avanzando nel mondo ci sia un
delta parlo una lingua di fosso seguo suoni di legno mentre
il vento dilania l’incerata.
Poiché non spero più resto davanti alla mia forma
sperando che trasmuti e il mare blu-cespuglio la scomponga.
(p. 68)