Apriamo con questo pezzo di Flavio Dell’Aversana la rubrica “La balera bianca”, che accoglierà, a ritmo irregolare, le nostre proposte musicali. Si comincia con la recensione dell’ultimo album di Vincio Capossela, che è per molti versi significativo per questa rivista. Avete mai visto una balena ballare?
di Flavio Dell’Aversana
Inquadrare Vinicio non è immediato. Non è immediato inquadrare il personaggio e neanche la sua musica. Troppo facile e riduttivo definirla «cantautorato», si rischierebbe di confinare le sue opere in un recinto dal contenuto troppo vago ed eterogeneo ma soprattutto, se si vuol parlare del suo Marinai, profeti e balene, il verbo «confinare» è più che mai sbagliato. Ascoltando quest’opera si assiste a un viaggio che parte da Itaca e si dirige verso l’orizzonte, oltre le colonne della conoscenza, sprofondando e riemergendo in continuazione dal nero nero degli abissi. In due CD vengono suonate e raccontate storie appartenenti alla realtà, alla letteratura e alla leggenda epica con una variazione di registri linguistici, di periodi storici e di generi musicali che lasciano l’ascoltatore affascinato da come una tale diversità di suoni possa costituire nel suo insieme un’opera unica e pienamente definita.
Il mare ci racconta di sé in questo disco estremamente denso, in cui nulla è lasciato al caso, parole, arrangiamenti, silenzi, echi. È un immergersi e un riemergere dalle profondità marine in cui vaga Il grande leviatano, chiaro e non unico riferimento al Moby Dick di Melville (La bianchezza della balena), bianco incubo ed ossessione del capitano Achab, si incontrano figure leggendarie appartenenti all’Odissea, si ballano ritmi scanzonati anni ’30 assieme alle sirenette ed ai pesci pagliaccio durante la festa di Nettuno (Pryntyl), si intonano gighe marinaresche di richiamo celtico e piratesco (L’Oceano Oilalà), e quando il rum è l’unica cosa dissetante ci si abbandona alle cadenze blues della ballata Billy Budd, trovandosi senza volerlo di fronte al motivo per cui Vinicio viene definito dal Times il «Tom Waits italiano».
L’album ci parla di statuette ritrovate (La Madonna delle Conchiglie), di balene imbalsamate (Goliath), di ricorsi agli indovini per sapere che cosa sarà del proprio viaggio (Dimmi Tiresia), di ciclopi ubriacati e accecati, di lotte nella tempesta per sconfiggere la Balena (I fuochi fatui), delle sirene il cui canto non vuole farti tornare a casa, perché «la casa è dove si canta di te» (Le sirene). Tutto nella stessa opera, «Marina Commedia» la definisce lui.
In questi due «tomi» i suoni creano delle vere e proprie immagini, i ritmi delicati e sinuosi di Polpo d’amor disegnano nell’acqua l’incedere del solitario abitante del mare, gli archi lugubri, i rimbombi, i suoni riecheggianti dei cori sono la spuma delle onde nel cielo scuro (I fuochi fatui), le distorsioni delle chitarre elettriche sono la bocca della Balena che si spalanca mostrando la porta dell’inferno. E si sentono i rumori – dettagli non immediati –, si vedono catene trascinate, l’acqua che sbatte contro la chiglia e la nave che sembra affondare, ma che non affonda mai; in Vinocolo si vede il passo barcollante di Polifemo serrato da un ritmo che sembra essere erede del Ballo di San Vito, le bollicine d’aria che salgono verso l’alto e il rumore dei remi che entrano in acqua. L’attenzione ai particolari, ai rumori, alle parole, ai versi, ai cori, è così maniacale che costruisce immagini visive con i suoni, e forse è proprio questo che riesce a unire, oltre al tema marino, tutte le canzoni di questo album, arrangiate in modo affascinante e mai uguale, proprio come il mare.
Raccontando di sé, quindi, il mare racconta anche di noi, ingigantisce le cose che sovrastano l’uomo, facendolo sentire piccolo, fragile e solo. Il tema della debolezza dell’uomo infatti ricorre spesso nelle liriche di questo disco, nascondendosi tra le righe di un jazz o di un mambo lento, dietro le urla del capitano Achab o nei versi suadenti delle sirene.
È tutta l’opera a essere degna di nota, poiché il suo valore è ben superiore della somma algebrica delle singole canzoni. Le storie, i generi musicali, i registri, cambiano da pezzo a pezzo, recitati, strillati o sussurrati, ma in un modo sempre coerente con la rotta di navigazione. Estrapolare una delle diciannove canzoni dal contesto non la renderebbe meno bella all’ascolto, ma sicuramente meno affascinante. Marinai, profeti e balene è come una zuppa, di mare ovviamente: fa bene, può piacere o meno, ed ogni ingrediente che la compone, più o meno buono da solo, a prescindere dal gusto personale, contribuisce ad arricchirne il sapore. È un disco da ascoltare da soli, camminando per strada di sera. Non è un disco divertente e spensierato, ma intenso e a mio avviso indispensabile.
Con Vinicio le definizioni non funzionano troppo bene, ma che questo sia un disco ben fatto è fuori discussione, un concept album che parla del mare e delle sue avventure, o meglio, un lavoro in cui è proprio il mare a raccontare le sue e le nostre storie, canzone dopo canzone, e tanto basta per poter intuire che voler ascoltare questo lavoro in modo superficiale equivarrebbe a pretendere di conoscere il mare guardandolo solo dalla spiaggia.
Sebbene sia bianco il signore degli elefanti bianchi
Che i barbari Pegu pongono sopra a ogni cosa
E bianche le pietre che i pagani antichi donavano
in segno di gioia, per un giorno felice
Bianche cose nobili e commoventi,
Come i veli di sposa
L’innocenza, la purezza, la benignità dell’età
Sebbene abiti bianchi vengano dati ai redenti
Davanti a un trono bianco,
Dove il santissimo siede, bianco come la lana
Sebbene sia associato a quanto di più dolce,
Onorevole e sublime
La bianchezza della balena
Niente è più terribile di questo colore,
Una volta separato dal bene,
Una volta accompagnato al terrore
La bianchezza dello squalo bianco,
L’orrida fissità del suo sguardo
che demolisce il coraggio
La fioccosa bianchezza dell’albatro,
nelle sue nubi di spirito
La bianchezza dell’albino bianco
E cosa atterrisce dell’aspetto dei morti
se non il pallore
Bianco sudario colore?
Spettri e fantasmi immersi in nebbie di latte
Il re del terrore avanza nell’apocalisse
Su un cavallo pallido
E pallidi i cappucci della pentecoste
E il mare nel suo richiamo abbissale
Nell’antartico, bianco sconfinato cimitero,
il bianco sogghigna nei suoi monumenti di ghiaccio
Il pensiero del nulla si spalanca nella profondità lattea del cielo
Bianco l’inverno bianco, la neve bianca,
bianca la notte
Bianca l’insonnia bianca, la morte bianca
e bianca la paura è bianca
L’universo vacuo e senza colore
Ci sta davanti come un lebbroso
Anche questo è la bianchezza della balena
La bianchezza della balena
Capite ora la caccia feroce? Il male abominevole,
l’assenza di colore
Marinai, profeti e balene, di Vinicio Capossela, La Cupa/Warner (CDx2), 2011