di Giacomo Raccis
Il nostro tempo di crisi e di emergenza, egemonizzato da discorsi su spread, PIL e patti di stabilità, si sta rivelando anche un periodo molto fecondo per manifesti e iniziative a sostegno della cultura. Segno che questo settore della società non sta godendo della necessaria attenzione, economica e non solo. Così non poteva mancare l’iniziativa del Sole 24Ore, giornale di Confindustria, che il 19 febbraio, sulla prima pagina dell’inserto «Domenica» (diretto da Armando Massarenti) lancia il proprio manifesto Per una costituente della cultura, sottotitolo “Niente cultura, niente sviluppo”.
Si articola in cinque punti, sintetici e molto chiari fin dai loro titoli: 1. Una costituente per la cultura, primario invito a ricostituire un circolo virtuoso tra cultura e sviluppo sulla scorta dell’articolo 9 della nostra Costituzione; 2. Strategie di lungo periodo, affinché la valorizzazione dei saperi possa guidare il cambiamento; 3. Cooperazione tra i ministeri, per una più profonda e articolata assunzione di responsabilità circa i temi della cultura; 4. L’arte a scuola e cultura scientifica, sul doppio binario della formazione di «cittadini e consumatori» e della ricerca per l’innovazione; 5. Merito, complementarità pubblico-private, sgravi ed equità fiscale, che non necessita di integrazioni esplicative. Il Manifesto fa appello a una tempestiva azione di governo perché, come sottolinea Massarenti il 25 marzo, «Non c’è un minuto da perdere. Il Paese non se lo può permettere». A partire da quel 19 febbraio, ogni settimana il “domenicale” ha dedicato due pagine a una vera e propria campagna promozionale del programma, proponendo interventi a commento, pratiche e iniziative che si muovono lungo i binari tracciati in quei cinque punti, e segnalando le tanto attese «nuove adesioni eccellenti» (con tutto quanto di narcisistico quest’espressione implica). Suggello di credibilità istituzionale, arriva il 24 marzo anche la menzione da parte del Presidente Giorgio Napolitano, in margine al discorso per i vent’anni della Giornata FAI di Primavera.
È certamente ben accetto, anzi è necessario oggi qualsiasi appello a riconsiderare il valore della cultura, nel senso ampio del termine, nella nostra società sempre più chiusa all’orizzonte della soddisfazione delle esigenze primarie. Tuttavia, da un’istituzione giornalistica di rilievo – verrebbe da dire dalla voce ufficiale dell’élite oggi al potere in Italia e nel globo – come il giornale confindustriale ci si poteva francamente aspettare di più. Il manifesto Per una costituente della cultura sembra infatti risplendere in tutta l’inerme e illusionistica genericità dei contenuti: la necessità di riqualificare quei settori del campo culturale che sono in grado di generare sviluppo e, perché no, profitto; la rivendicazione dell’imprescindibile complementarità di cultura umanistica e cultura scientifica; l’importanza del sostegno alla scuola come luogo di trasmissione della nostra eredità storica e civile; il bisogno di un’iniziativa governativa che dall’alto sappia dare nuovo respiro e prospettiva lunga alle iniziative culturali più disparate. È chiaro che questo programma sia condiviso e sia stato sottoscritto da un grande numero di enti, istituzioni, Onlus, associazioni, fondazioni e anche da privati cittadini¸ ma il problema sta proprio lì, nell’assoluta genericità e universalità dei contenuti. Se il secondo termine ben si attaglia agli attributi che devono sostenere ogni battaglia per la cultura, il discorso è decisamente diverso per il primo.
Esemplare è il caso del coinvolgimento dei candidati alle ultime elezioni amministrative in una discussione, invero molto modesta e distaccata, circa l’adottabilità del Manifesto nei programmi elettorali. La proposta è stata favorevolmente accolta da candidati appartenenti a schieramenti opposti, anche nell’ambito di confronti diretti (come testimonia l’articolo del 13 maggio, dedicato al «Manifesto al ballotaggio»). Se è vero che il valore della cultura non deve essere contrattato secondo logiche politiche e non deve subire limitazioni relative a schieramenti ideologici, è vero anche che un tema che si ripropone identico nei programmi elettorali di due candidati avversari smette di ricoprire un ruolo discriminante nella discussione e perde qualsiasi funzione di stimolo a un impegno attivo. Al contrario, rischia di diventare un tributo in qualche modo «disimpegnato» a una questione tanto evocata nei dibattiti civili quanto puntualmente accantonata e disattesa.
Viene il dubbio quindi che l’obiettivo primario, ma velato, di questa iniziativa sia un’operazione di auto-promozione, volta a estendere anche al campo della cultura il peso specifico della «corporazione» schierata dietro al giornale. Lasciano molto a desiderare le tante segnalazioni di attività e iniziative da valorizzare e promuovere, come quella relativa alla Fondazione Palazzo Strozzi e affidata a un personaggio come Lorenzo Bini Smaghi, presidente della fondazione e soprattutto banchiere: ecco che il discorso si popola di cifre sui milioni di euro fatturati e versati all’erario, compaiono nomi come Saatchi and Saatchi, Bank of America, Boston Consulting Group e s’incappa in affermazioni come «di sola cultura non si mangia» o «è necessario il contributo del settore privato, sotto forma di finanziamenti, sponsorizzazioni, sostegno filantropico». Un’idea di cultura davvero particolare, confermata anche per via indiretta da interventi come quello di Massimo Firpo (8 aprile) sui criteri di valutazione della produzione scientifica proposti dall’anvur, che si conclude con una tirata sul valore ancora non riconosciuto di iniziative promosse da fondazioni bancarie e altri enti privati («se si pensa alla quantità di risorse erogate in tutta Italia dalle Fondazioni bancarie non sarebbe inopportuno proporre che anch’esse venissero valutate per i risultati prodotti, per il rapporto costi-benefici»). E pure le proposte più interessanti e provocatorie, orientate allo stimolo di «buone pratiche» e alla razionalizzazione di risorse e investimenti, come quella di Gianluigi Ricuperati (29 aprile) sulla costituzione di «Paradisi fiscali della conoscenza», rimangono inficiate in una concezione parziale e settaria della produzione culturale: «si parlerà di soldi per potersi permettere di parlare di idee».
Emerge allora con evidenza quello che potrebbe essere l’unico elemento che sbilancia il significato del manifesto, al di là di quella genericità altrimenti riscattabile con la bontà delle intenzioni. «Cultura e ricerca sono due capisaldi della nostra Carta fondamentale. […] Sono temi saldamente intrecciati tra loro. Perché ciò sia chiaro, il discorso deve farsi strettamente economico». Così recita il primo punto programmatico del manifesto: l’oggetto è il contributo economico che la cultura, quando ben declinata e sostenuta, può apportare a una società in piena crisi. Ma è questo l’argomento più valido, lo strumento più efficace che possiamo utilizzare per convincere qualcuno del perché è opportuno finanziare la cultura? È solo il tornaconto economico che orienta le nostre scelte o che le giustifica di fronte a chi non le condivide e le mette in dubbio? È la prospettiva di guadagno l’unico metro di giudizio rimasto valido in una civiltà strozzata dalla crisi?
Ma come si può conteggiare in euro il valore della consapevolezza di un genitore poco istruito che acconsente, e anzi incoraggia, una scelta di alta formazione scolastica del proprio figlio? Come si valuta economicamente la capacità di fronteggiare un’emergenza attraverso un intervento di lunga prospettiva – al posto delle soluzioni palliative tanto di moda oggi, anche nel piccolo contesto – che diventa comportamento diffuso, atteggiamento collettivo? È stimabile in termini monetari la diffusione della cultura del rispetto, dell’apertura al diverso, della curiosità per realtà lontane, sostenuta attraverso una politica di scambi culturali e un aumento delle occasioni di esperienze all’estero così come di presentazione del nostro paese agli «ospiti»? Come si valuta il valore di una biblioteca che chiede soldi al comune per creare occasioni di compartecipazione, di scambio, di conoscenza tra gli abitanti del quartiere, e senza produrre alcun utile?
Certo, hanno sicuramente un peso rilevante anche gli aspetti più pratici e noti, come gli interventi strutturali a sostegno della ricerca tecnologica e della specializzazione scientifica che porterebbero il nostro paese a competere in campo commerciale con tutte le nazioni che sono oggi meta della fuga dei «nostri cervelli». Ma un buon manifesto dovrebbe anche fare in modo di ampliare l’orizzonte del senso comune, non di rispecchiarne le istanze nella loro più banale e generica formalizzazione. Perseverare in un appello alla necessità di pareggiare anche questo bilancio, attraendo «altrettanti “cervelli” dall’estero», significa confermare il valore di feticcio assunto da questa situazione troppo spesso considerata «modello unico», a discapito di una vastissima gamma di contesti e problematiche differenti e più sfaccettate che restano sempre in secondo piano.
La cultura non è solo la ricerca che fornisce le tecnologie necessarie a competere sul mercato. Questa è la punta di un iceberg, molto significativa ma non egemone. La parola cultura ha un valore che estende la propria influenza anche – soprattutto, verrebbe da dire – su chi non appartiene all’élite intellettuale della società, e necessita, magari inconsapevolmente, di qualcosa che faccia evadere oltre le gabbie mentali di una quotidianità stretta tra lavori che non soddisfano e incombenze che si pensa di non poter sopportare. Le «buone pratiche» sono anche quelle che sanno produrre, rendere percepibile questa necessità. E questo, a maggior ragione, in un momento di crisi, in cui si deve (ri)affermare la posizione di voce non contrattabile della cultura nel bilancio di un paese. Non è sottolineandone la rilevanza economica che si rinsaldano le fondamenta del sistema scolastico e culturale, ma al contrario riaffermandone il valore e il potenziale assoluti, al di là di qualsiasi dinamica commerciale o scambistica.