«Qualcosa di scritto» è la formula che Pasolini usa più volte in riferimento a Petrolio, la sua ultima e incompiuta opera. Una frase che dietro la sua semplicità – come chiamerebbe infatti un libro un bambino, se non qualcosa di scritto? – nasconde una complessità di generi e modalità di scrittura che non si può ridurre al romanzo. E come Petrolio, da cui Trevi preleva il titolo, Qualcosa di scritto non è un romanzo.
Basta iniziare a sfogliare il libro, infatti, per rendersi conto di trovarsi di fronte a un ibrido, e che la parola «romanzo» che l’editore mette sulla copertina è solo un’etichetta di comodo. Una fascia scura sul taglio delle pagine, poco oltre la metà, raccoglie un gruppo di fotografie su fondo nero e lucido; fotografie di piccolo formato, scattate forse dall’autore con poca cura, che ritraggono un testo di antropologia religiosa, reperti di arte classica e mitologica, quella che sembra una strada qualsiasi di una città greca non specificata – perché qui, e solo qui, la verbosità di Trevi è sospesa e non concede didascalie. Soggetti di quello che potrebbe essere il resoconto di un viaggio e che certo non ci si aspetta di trovare in un’opera di finzione. Un romanzo di viaggi, allora, evidentemente autobiografico?
Forse. Perché poi si continua a sfogliare e si trovano anche delle note, che all’inizio sembrano poco più che retroscena, una specie di contenuti extra dei dvd che prendono spunto dalla spiegazione di un aneddoto, ma poi portano ad accostare Pasolini e Philip K. Dick o al tabellino di un Milan-Barcellona del ’94; allargano lo spazio del libro ad altri testi e incontri, ma naturalmente instaurano il legame più stretto con quanto Trevi scrive nel corpo principale, arrivando a farne parte pur rimanendo relegate in fondo al libro. Costringono a continui salti tra le pagine, ostacolando quel flusso lineare e tendenzialmente autoreferenziale che muove tanta letteratura romanzesca. E anche se dopo David Foster Wallace non è più così insolito trovarle in un certo tipo di narrativa, le note suggeriscono istintivamente una cosa sola: saggistica. Tanto più che nelle ultime pagine spunta anche una bibliografia – Trevi la chiama «materiali» – di testi o articoli, per lo più di critica letteraria, usati in vario modo per la stesura.
Romanzo, si legge in copertina, libro di viaggi o magari saggio critico, pensi dopo un’occhiata agli interni. In ogni caso un insolito oggetto, multiforme.
Passando al testo vero e proprio la situazione non si chiarisce. Troppo esile la trama – un Trevi non ancora trentenne alle prese col Fondo Pasolini entra in contatto con l’opera di P.P.P. grazie alla figura di Laura Betti, che seguirà in un viaggio-pellegrinaggio in Grecia sulle tracce del fantasma di Pasolini, poi replicato dal solo Trevi nel 2011 – per imprimere al libro un andamento convincentemente narrativo; tanto più che a questa vicenda si alternano digressioni critiche su Petrolio, in cui anche questo residuo di narrazione scompare per lasciare il campo al discorso saggistico-memoriale su Pasolini. Petrolio come cronaca in presa diretta di un’iniziazione a un rito compiuto su se stesso – sulla falsariga dei misteri di Eleusi, rintracciati nel secondo viaggio greco delle pagine conclusive: questa la lettura che ne dà Trevi dopo aver scartato con fermezza le interpretazioni complottistiche.
Sicuramente più romanzesco il trattamento riservato alle figure principali del libro, che pur essendo reali ne emergono come personaggi letterari a tutti gli effetti.
Innanzitutto l’autoritratto di un Trevi lungo la linea d’ombra dell’età adulta, quando ancora le ingenuità dell’adolescenza non sono del tutto superate e proiettano dei residui sulla carriera intellettuale appena avviata. «Eterno apprendista perdigiorno» tra le carte dell’archivio Pasolini, incapace di reagire alle ostilità del mondo e tentato, si direbbe, dalle lusinghe dell’ipocrisia, Trevi percorre «a tentoni, come il prigioniero di Edgar Allan Poe, il periplo delle pareti, umide e buie come si addice a tutti i sottosuoli» del suo carattere, facendocene toccare con mano ogni fessura. C’è poi Pasolini stesso, che appare come uno spettro allo stesso tempo psichico e reale quando si manifesta all’autore nei corridoi dell’archivio o tra la folla a casa della Betti, con un ghigno terrificante, la sera dell’elezione di Berlusconi nel ’94. Ma su tutti, senza dubbio, spicca Laura Betti.
Figura centrale dei salotti romani, legata a Pasolini da un sodalizio artistico e umano e direttrice del fondo a lui dedicato, è proprio lei, la vecchia attrice ora in rovina, a dominare la scena. Trevi ne fa un ritratto grandioso e terribile, senza risparmiarle quella malevolenza che a suo avviso sta alla base del successo di ogni biografia, in quanto strumento di conoscenza incensurata. Aggressiva e tirannica, volgare, decadente nello spirito e nel corpo ormai grasso, imposta da subito il rapporto sul piano dell’insulto, preferibilmente declinato al femminile: «zoccoletta» è il nomignolo che gli riserva, e lui ne va quasi orgoglioso. Perché in fondo dietro quelle eruzioni umorali, esattamente come accade per la malevolenza del biografo nei confronti del suo oggetto di studio, si intravede la traccia di uno slancio affettivo, quasi una tenerezza di chi ha nella rissa l’unica, dolorosa modalità di rapportarsi all’altro. Il giorno in cui Trevi si presenta da lei regalandole il primo libro appena pubblicato se lo vede restituito letteralmente a pezzi. In un incontro pubblico l’autore ha dichiarato che il ricordo di Laura Betti che straccia e poi calpesta il suo libro, come fosse un mozzicone o come per pulirsi la suola da una merda di cane, Laura Betti che mortifica la prima copia appena recensita sul Corriere che proprio a lei aveva deciso di regalare, è uno dei più dolci della sua vita. E non si tratta solo di masochismo – in una certa dose sicuramente presente – quanto piuttosto di riconoscenza verso chi, con i suoi eccessi, gli ha mostrato in atto una via più autentica, lontana dalle ipocrisie, poco importa se poi accolta nelle scelte dei singoli. Eppure la Pazza sembra capace anche di momenti di straordinaria umanità, in cui di colpo si trasforma in una compagna amabile e premurosa: una maschera, un capriccio, perché poi, repentinamente, ripiomba nella ferocia, cancellando il segno appena accennato della Buona con violenza ancora maggiore, macinando nel giro di pochi attimi gli estremi della sua indole.
Vale la pena di concentrarsi sulla Betti perché penso che nella sua figura si incarni l’idea di letteratura trasmessa da Qualcosa di scritto. Una creatura spuria, grottesca, che non ha timore di contaminare alto e basso, comicità e sofferenza, elementi dissonanti sia a livello di materiali e generi utilizzati sia di atteggiamenti umani della Pazza. Benché nel libro si parli per lo più di fatti tragici – tutto muove dalla scomparsa di P.P.P., e della Betti poi – il tono prevalente è quello comico. Infatti non manca il divertimento – lo stesso rapporto Betti-Trevi ricalca le scenette triviali delle coppie di attori comici più celebri, in cui la spalla si sottopone di buon grado alle angherie del suo carnefice verbale – come per esempio nell’episodio di una Betti che si mette a pisciare nell’ascensore di un albergo, per vendicarsi della cafoneria dei milanesi (e pure milanisti) in trasferta ad Atene. Da questo attrito tragicomico scaturisce un effetto disturbante per il lettore – che sorride, ma non può fare a meno di provare un certo disagio davanti allo spettacolo di una donna così devastata.
Il fatto è che «i principali ingredienti [della pienezza dell’umano] sono la sofferenza e la tragicità, talmente impastate e confuse che è impossibile, ormai, distinguerle», e Trevi, che detesta la decenza in quanto mascheramento dell’autentico, affida a una scrittura ibrida e onnivora il compito di rendere conto di tale pienezza. Da qui la caratterizzazione senza filtri della Betti, che ha un corrispettivo nel rifiuto del decoro narrativo che oggi sembra la vocazione dominante di tanta letteratura. «La varietà dei generi», lamenta Trevi non senza una punta di snobismo, «con tutta l’infinita gamma di sfumature, contaminazioni, variazioni individuali, sembra quasi scomparsa, ridotta a una sola esigenza, a una sola preoccupazione: raccontare delle storie, fare un bel romanzo». Con Qualcosa di scritto si tenta un recupero di quell’ideale di complessità contro la ricerca dell’omogeneo che taglia il tragicomico, le sfumature, lo sgradevole, riducendosi a intrattenimento.
«Ciò che l’editor intende fare, è trasformare tutta intera la letteratura in narrativa». A questo, in definitiva, Trevi si oppone.
E. Trevi, Qualcosa di scritto, Milano, Ponte alle Grazie, 2012, pp. 256, € 16,80