Ho ricevuto questo libro in regalo e, leggendolo, ho sperato non mi colpisse: una tra le ragioni che mi avrebbero spinto a non scriverne.
Una premessa fastidiosa perché autoreferenziale, ma necessaria: sono pugliese d’origine e profondamente legata alla terra che fa da sfondo alla vicenda: scrivere la recensione dell’ultimo lavoro di Paola Calvetti, Cara sorella, mi ha creato qualche imbarazzo per il timore di non essere oggettiva.
Invece mi è piaciuto. Eccome. Ho cominciato allora a pensare che le qualità che percepivo fossero tali solo per me, solleticata da situazioni vissute nel dettaglio e da profumi attaccati ai miei ricordi, e che non sarebbero risultate altrettanto interessanti ad occhi forestieri.
Non mi è restato che applicare il metodo Giuni Russo: la sua Mediterranea, certamente un po’ anni ’80, è la mia cartina al tornasole della Verità sul Sud Italia. Non perché contenga rivelazioni del terzo tipo, ma perché ascoltandola si può distinguere limpidamente ciò che sembra caratterizzare maggiormente il Sud: le sensazioni che ti lascia addosso. Ho cominciato a leggere ascoltando questa canzone e l’ho trovata perfettamente consonante con Cara sorella: in entrambe c’è il silenzio, il mare, il bisogno di ricongiungersi con uno stato naturale anche dell’anima e, soprattutto, il bisogno di andare lontano.
Mi sono convinta in itinere che la sapiente scrittura fosse senz’altro data da questo: dalla necessità di considerare tutto ciò che accade nella sua essenza primigenia. Così l’autismo non è malattia ma silenzio che fa bene, il Sud non è mafia, ospitalità ostentata o sole tutto l’anno, è solo un luogo con le sue (splendide) caratteristiche, e il dolore non è più tale se riconciliato con il ciclo della vita. Ecco le metafore, il miscuglio di italiano ed espressioni dialettali, le tante riflessioni sulla scrittura e sulle parole, gli episodi che tornano dal passato a spiegarci qualcosa in più sul presente, i sogni che colmano l’incapacità di dire tutto ciò che dobbiamo.
La prova del nove poteva considerarsi brillantemente superata.
Neanche a metà del libro leggiamo:
Cara sorella, ho paura che ti perderai a seguire il maremoto del mio umore. È una danza scomposta, ma tu seguila, fai delle mie parole una musica, ascoltale come fosse il bislacco procedere di Ella sulle note di Jobim, lasciati andare all’improvvisazione.
Tutto torna alla fine. Tutto.
Anche tu? (p.49)
In questo frammento, del libro, c’è quasi tutto ciò che serve sapere: c’è l’impostazione del discorso in forma di epistola con la co-protagonista (che poi scopriremo essere un foscoliano colloquio con una defunta); c’è l’intonazione intimistica e l’incedere claudicante di una scrittrice che si è fatta narratore e personaggio principale; e c’è il tentativo di illuderci che si tratti di un accumulo, di un incontrollato stream of consciousness; c’è una promessa di sensazioni che si dispiegheranno; c’è uno dei tanti riferimenti colti che questa scrittura fatta di metafore si concede; soprattutto, c’è un vero e proprio patto con i lettori, invitati insieme alla sorella a lasciarsi cullare da un racconto che promette di spiegarci ciò che deve, ma a suo tempo. Ecco, c’è tutto, in potenza.
Non è semplice seguire l’itinerario di questo viaggio lungo la Puglia: scenario quasi mitico, le cui prime tappe ci introducono in un’atmosfera mistica e che attira magneticamente nel suo paradiso, fatto di spiritualità, natura, tradizioni, radici che sprofondano nella terra e lontananze, tanto che alcune di esse sono paragonate a località dell’estero: Monopoli come Saint Malo, incantevole borgo del nord della Francia, e Polignano come il Marocco, dove profumi e colori la fanno da padrone.
Tre giovani ragazzi d’oggi compiono questo viaggio: Sarita e Alberto sono studenti di botanica e devono fare il censimento di una quercia, a cui l’estate concede un tempo disteso e vissuto come una vacanza, mentre Alessandro deve superare un lutto troppo grande e ne racconta le difficoltà a sua sorella Iaia, motivo della sofferenza e al contempo consolazione dalla solitudine. Loro milanesi, lui palermitano ma milanese d’adozione. Loro amici e colleghi, lui compagno discreto di Alberto, che lo affianca nel lutto con la devozione degna di un amore maturo.
Molte comparse costellano il percorso di questo piccolo nucleo di figure: personaggi legati a episodi paesani come Francesco il balbuziente; una mamma siciliana giovane ma tutta silenzi di donna del sud, che nella vita ha parlato coi figli attraverso i testi di Federico II; una nonna che raccontava storie antiche, di quelle che condiscono la lunga preparazione della salsa e considerate ingrediente necessario per la buona riuscita dell’impresa gastronomico-popolare.
Tutto sembra avere uno stretto rapporto con il silenzio: nonostante la scrittura che si vuole accumulo di episodi, sensazioni, ricordi, citazioni colte (si va dalla Woolf, a Escher, alla musica Jazz), nonostante i vari incontri con gruppi di personaggi (prima i vecchi, poi i turisti del Fool’s bar) e nonostante i diversi luoghi visitati (dodici), nulla crea confusione.
Sembra vigere un rispetto profondo verso il percorso che i personaggi compiono alla ricerca dello scioglimento di un nodo problematico, che può avvenire solo attraverso il contatto con la semplicità e le origini, nell’atmosfera quasi sacrale che questo comporta. Per questo non tutto è riconducibile a un ipotetico meridionalismo, tanto che ad un certo punto troviamo un affascinante non-ritratto del Nord:
Non so niente io di narcisate, le gite sui colli in primavera quando l’aria profuma di linfa e le famiglie si affannano a riempire le automobili di mazzi di fiori di campo (…) So poco di boschi e montagne. Le vette mi fanno paura. Mi vengono le vertigini se solo mi guardo i piedi. (…) Sono geloso della loro intesa, di quel capirsi al volo. Alberto e Sarita (…) se perdono l’orientamento nella macchia guardano il muschio sui tronchi degli alberi. Dov’è il muschio è il nord, perché lì non batte il sole e la muffa prospera allegra.
Che invidia. (p. 60)
Le tematiche sono molte e diverse: si parla appunto di viaggio, del Sud, della necessità del silenzio, di omosessualità, di autismo, di famiglia, di morte. Eppure da nessuna parte pare di comprendere che il viaggio sia metafora di vita, che l’omosessualità sia alla ricerca dei propri diritti e nel frattempo di trasgressione, o che l’autismo sia una diversa maniera di comunicare, che la diversa abilità renda speciali. Tutto è ridotto ai minimi termini e, inaspettatamente, riesce a bastare.
Se qualcuno ha l’impressione che le vicende siano poco approfondite o che alla lunga le continue evocazioni stanchino un po’, probabilmente ha ragione. Ma solo in parte: perché ciò che conta è l’evoluzione sottesa a tutto questo e il modo in cui essa veicola le vicende. I luoghi diventano man mano sempre più cupi, parallelamente all’avvicinarsi della verità, che arriverà a chiarire impressioni avvertite durante la lettura; i personaggi vanno incontro ai loro destini in una potente fusione di passato e presente: una delle ultime scene li vede indossare abiti d’epoca trovati negli armadi della casa vacanze e senza remore escono così abbigliati: «Tre turisti ammattiti che festeggiano un carnevale tutto loro» (p. 109).
Ma restano sempre e solo le sensazioni, che raccontano ciò che serve, molto meglio delle spiegazioni esplicite, perché è il silenzio a suggellarne la bellezza. Ognuno ha sciolto il proprio groviglio di vita là dove si vive di sagre e feste di paese, dove il rapporto col tempo è fatto di una lentezza produttiva perché cosciente, dove la gente siede per strada con sedie bianche di plastica e ti guarda con le sue certezze ancestrali, dove lo Ionio al tramonto regala profumate folate di vento e ti ricorda che «dall’acqua può arrivare tutto» (p. 6), dove guardare un paesaggio «è un balsamo per gli occhi» (p. 11) e dove il freddo riesce sempre a sorprendere.
E allora niente è davvero mai lontano abbastanza, l’importante è comunicare, anche da lontano. Chi riceve, prima o poi, risponderà:
C’è una famiglia di acacie di cui vanno ghiotte le giraffe africane, che si ribella ai morsi. Se una pianta viene rosicchiata a lungo, cambia la sua composizione chimica e diventa velenosa. Quindi, sfruttando il vento, comunica alle altre acacie il pericolo e l’intero campo si fa indigesto. Alle giraffe non rimane che risalire in direzione opposta al vento. (p. 104)
Per tornare all’autoreferenzialità, non ho trovato altro modo di spiegare questo libro se non nello stesso modo in cui l’autrice l’ha spiegato a me. Ovvero, attraverso la sua scrittura, che mai quanto in questo caso è condizione necessaria e sufficiente.
Posso aggiungere un consiglio: questo libro ha che fare con tutto ciò che ognuno porta con sé anche senza saperlo. Sarà sorprendente lasciare che sia lui stesso a rivelarcelo: tutto il resto verrà da sé. Il consiglio è quindi quello di abbandonarsi completamente, seguendo i protagonisti come ombre silenziose e imparando da loro la pazienza di arrivare sino in fondo.
E magari, di usare Giuni Russo come sottotraccia, che non fa mai male.
P. Calvetti, Cara sorella, Milano, Bompiani, 2011, pp. 119, € 15.