di Lorenzo Cardilli
Parlo dunque sono di Andrea Moro è un «album di istantanee» sul linguaggio. Uscito per la collana «Biblioteca minima» di Adelphi, presenta tutte le caratteristiche della chicca. La copertina, notata da Belpoliti su «Tuttolibri», propone dei fiocchi di neve disegnati da Cartesio (Les Météores, 1637), a cui viene dedicato anche un capitolo del libro. Il fiocco, che la mano cartesiana vuole più simile a un batterio ciliato, ritorna alla fine dell’opera, richiamato da una citazione di Noam Chomsky: «Il linguaggio è più simile a un fiocco di neve che al collo di una giraffa» (p. 84). Fin da questi piccoli assaggi il libro si presenta compatto e originale. Moro si diverte a mischiare la lucidità dello scienziato e l’estro del divulgatore: un estro che talvolta sconfina nella licenza, in una spudorata libertà argomentativa. Visibile del resto già nel progetto generale del libro: diciassette scatti su altrettanti protagonisti del linguaggio, cronologicamente ordinati, da Dio al padre della sintassi generativa.
L’obbiettivo di Moro vola tra millenni di pensiero linguistico e filosofico, spostandosi da Aristotele a Russell, da Varrone a Joseph Greenberg (padre della linguistica tipologica). Ma i capitoletti non sono “istantanee” esclusivamente per la loro brevità: Moro lavora sull’inquadratura, cattura il dettaglio, affronta gli argomenti con un taglio arbitrario e originale. Chi cercherà una pura e sintetica presentazione dei “soggetti” e del loro pensiero rimarrà deluso. Troverà invece nel libretto un’«immagine innaturale» (p. 91) del linguaggio e della storia delle sue rappresentazioni teoriche, una serie di foto in cui spesso rimane sul bordo il dito del «fotografo inesperto» (vogliamo esagerare la suggestione dell’autore di p. 89). Questa dichiarata parzialità è scelta consapevolmente da Andrea Moro, e costituisce forse il valore aggiunto di Parlo dunque sono.
I capitoletti partono sempre da una citazione estratta dall’autore in oggetto, e approfondiscono un tema, senza nessuna preoccupazione storiografica o erudita; dalla «linguistica atomica» (p. 13) che Dio delega all’uomo nell’episodio della nominazione si passa alla sintassi armonica di Platone e al verbo essere di Aristotele: mano a mano che si sale nei secoli aumenta la complessità dei “tagli”, che si spingono fino alla ricorsività logica o alle teorie acquisizionali. Moro fornisce un quadro davvero militante del pensiero linguistico: cosa resiste del metodo positivista «al tempo delle neuroimmagini»? (p. 46) Come si arriva da Cartesio alle macchine di Turing? (p. 38) Che significato ha la crisi del principio di economia? (pp. 42-43) Questa impostazione, talvolta spinta fino al capriccio, è efficace sia per il profano sia per l’iniziato. Chi si accosta per la prima volta alla materia potrà apprezzare il fascino estremo delle questioni, che attraversano i secoli un po’ stravolte un po’ invariate. La loro natura ibrida, di confine, irriducibile a una sola disciplina. L’estro (o la follia) con cui sono state affrontate dai vari studiosi, che per Moro costituiscono una comunità scientifica in perenne dialogo. L’addetto ai lavori sarà invece costretto a uno sforzo di sintesi, raro in un ambito così settoriale. L’album di Moro non è esaustivo, non ha nessuna pretesa di completezza: obbliga però a far reagire le nozioni, a confrontarsi con un’interpretazione forte. Spinge ad approfondire autori “scolastici” o conosciuti per sentito dire, ne filtra il valore attuale e problematico.
Entrando nel merito delle posizioni teoriche, Moro è schierato decisamente a favore di una grammatica universale, che oltre l’«effetto Babele» (p. 64) delle lingue costituirebbe la base del codice umano. Il suo approccio è figlio della grammatica generativa (e gli estremi Dio-Chomsky un po’ lo confermano): privilegia la struttura e non la variazione, l’innatismo e non la convenzione, la sintassi (la semantica?) e non la pragmatica. Solo questo taglio teorico può aprire la strada alla creazione di un’«anatomia ragionata della grammatica»:
I confini di Babele dunque esistono, e sono inscritti nella nostra carne. Ciò ovviamente non significa affatto che si arriverà a ridurre la comprensione del linguaggio a meccanismi neuronali (una prospettiva, questa, che, personalmente, non riesco nemmeno a capire); ma potremo verificare in quale misura i meccanismi neurobiologici sono isomorfi alle strutture formali del linguaggio, se lo sono, e definire e circoscrivere di conseguenza i limiti di variazione di questi meccanismi per giungere a derivare su base neurobiologica la classe delle lingue possibili. Potremo, in altre parole, avere un’«anatomia ragionata» della grammatica. Certo, è poco, niente forse, rispetto a tutto quello che significa per noi esseri umani il linguaggio nella sua totalità: rimangono fuori, per esempio, la poesia, le preghiere, le condanne, le promesse, le frasi d’amore, le barzellette. Ma non abbiamo alternative ragionevoli.
(p. 78)
L’obbiettivo proposto da Moro è la creazione di un ponte tra fisiologia e sistemi formali: senza sminuire l’importanza di una tale prospettiva, che peraltro potrebbe condurre verso paesaggi concettuali inediti (vedi il suggestivo capitolo finale), si potrebbe proporre qualche “nota a margine”. Moro ha perfezionato la sua formazione presso la scuola di Chomsky al MIT. La sua impostazione scientifica presenta i caratteri tipici del generativismo. Se un requisito fondamentale della scienza è la possibilità di «formulare domande nuove» (p. 71), la grammatica generativa suscita una serie di interrogativi legati alla specificità delle sue linee di ricerca. Perseguire una teoria linguistica che si precluda una parte così rilevante come la possibilità di “fare cose con le parole” non sarebbe come giocare al ribasso? Creare, giurare, pregare, scherzare sarebbero “azioni” che cadono davvero al di là della teoria? La stessa base convenzionale e intenzionale del linguaggio è destinata ad essere bandita senza alternative dai sacri confini della struttura?
«È evidente che la fisiologia, non può essere oggetto di convenzione» (p. 85): questa contrapposizione è davvero così rigida? È solo la sintassi ricorsiva a rendere “umano” il linguaggio umano? O anche il suo funzionamento, il suo continuo azionarsi in vista di uno scopo (consapevole, collettivo, inconscio, etc.)? L’autore sembra escludere per via sperimentale l’estensione della teoria alla pragmatica e alla convezione. Nel Post scriptum Moro tenta di attenuare la sua freddezza “speculativa”, appellandosi in extremis a una sorta di personalismo linguistico («dietro ogni frase sta una persona», p. 91): per ritornare all’uomo non sarebbe forse più appropriato contemplare l’uso del linguaggio, oltre che la sua struttura? È legittimo riflettere su queste domande, a rischio di cadere nella pseudoscienza, proprio dopo aver riconosciuto l’importanza divulgativa di Parlo dunque sono, che ha tutto il merito di proporsi come mediazione tra la nicchia della ricerca e un pubblico molto più largo. Oltre i cavilli teorici, il libro è dotato anche di un certo valore stilistico, nella prosa piana e piuttosto curata, nelle chiuse ben congegnate, nella ricerca di immagini semplici e particolarmente efficaci. Come nello sviluppo del paragone di Chomsky col fiocco di neve, secondo cui il linguaggio umano è una «risposta istantanea» a «condizioni indipendenti la cui natura e complessità ci sfuggono» (pp. 86-87). O come in questa chiusa di un capitoletto centrale, in cui traspare tutto l’accanimento “metodologico” dell’autore:
Il nostro linguaggio resiste dunque ancora saldamente nel suo ruolo di grande scandalo, di scandalo costante: è costruito sulla carne e matematico nelle regole, ma siamo solo in grado di descriverne la struttura e i limiti, come la tavolozza dalla quale nasce un quadro. Il quadro, si sa, è un mistero inafferrabile; non per questo però dobbiamo considerare un mistero anche la tavolozza.
(pp. 50-51)
A. Moro, Parlo dunque sono, Milano, Adelphi, 2012, pp. 104, € 7.