Timira è Isabella Marincola, cittadina italiana, nata in Somalia. Wu Ming 2 è uno scrittore, lui dice cantastorie, italiano con un nome cinese. Antar Mohamed è il figlio italo-somalo di Isabella. Timira è un romanzo meticcio che racconta la storia di queste tre persone, di tante altre e di quasi un secolo d’Italia.
“Raccontare la storia” è il punto e lo è nel senso di Ousmane Sembène: «Non fai una storia per avere vendetta, ma per mettere radici» (p. 11). Timira infatti non è una testimonianza, una biografia o una cronaca, anche se racchiude in sé elementi di tutti questi generi, bensì un romanzo e trasformare una vita in narrazione vuol dire renderla assoluta e di tutti.
In quest’Italia della cronaca e del facile oblio abbiamo bisogno delle nostre storie per capire e costruire chi siamo. Il prezzo da pagare è qualche concessione alla fantasia ma, afferma Wu Ming 2, «a volte le invenzioni restituiscono meglio il reale». La storia di Isabella è sorprendente: nasce nel 1925 a Mogadiscio da madre somala e padre italiano, soldato dell’esercito coloniale, che la riconosce e la porta in Italia insieme al fratello Giorgio. Lui diventa eroe della lotta partigiana, lei combatte tutta la vita tra Italia e Somalia per il rispetto, la dignità e l’identità riconosciuta. La sua storia è piena di oggetti, incontri (uno su tutti quello con Indro Montanelli), odori e fisicità. Nel suo mondo la realtà è dura, ma la volontà più forte.
Il libro è un «mosaico perfetto» (Itala Vivan) originato dalla composizione di tre discorsi che si alternano continuamente: quattro “lettere intermittenti”, dialogo ideale tra due degli autori e collante tra biografia e narrazione; l’“archivio storico”, fatto di documenti e testimonianze reali; il racconto vero e proprio, in seconda persona singolare, il cui presente narrativo è in Italia negli anni ’90 e che subisce continui flash back con conseguenti cambi di ambientazione (Mogadiscio, Roma, Bologna…). Dopo aver un poco spaesato, la narrazione coinvolge, i tre discorsi si fondono in uno, i personaggi vivono e la magia del racconto si compie. La chiave di questo positivo esito è la scrittura: collettiva, come vuole il manifesto di Wu Ming Foundation, ma in modo nuovo. Il cantastorie non scrive con i compagni, ma con Isabella prima e con il figlio Antar poi. L’idea iniziale di Wu Ming 2 viene infatti subito e per fortuna scartata: «Ti ho proposto di riversare la tua vita nel registratore e di lasciare a me il compito di tradurre quei suoni su carta […] sono venuto alle tue coste come un europeo d’altri tempi per trasformare le tue terre nella mia colonia» e gli autori collaborano.
La scrittura a quattro o sei mani lascia grande libertà di interpretazione al lettore che diventa produttore di senso, co-autore. Le vicende attraverso le quali passa Isabella, i temi che vengono affrontati o accennati, le domande sollevate, oltre a creare, come spiega Massimo Vincenzi, uno di quei «libri che poi ti stimolano una fame insaziabile di sapere, di leggere saggi per conoscere più a fondo le vicende narrate» (La Repubblica, 1 giugno 2012), possono essere tutte chiavi di lettura personali attraverso le quali interpretare, con l’approvazione degli autori, il romanzo. «Spero che i lettori vengano emozionati da cose alle quali non ho pensato», commenta infatti Wu Ming 2.
Ogni lettore trova la sua narrazione, ai miei occhi di lettrice particolare i temi che con più forza si palesano sono il razzismo e la questione identitaria.
Isabella è insegnante, attrice (è la mondina nera in Riso Amaro di Giuseppe De Santis del 1949), modella dalla pelle scura nell’Italia che promulga le leggi razziali. Vive in Somalia durante l’amministrazione fiduciaria italiana (AFIS) e quando torna, nel 1991, trova Tangentopoli e la cosiddetta Seconda Repubblica. Il razzismo verso di lei, “italiana dalla pelle scura”, è onnipresente, ma nel tempo si modifica. Durante la dittatura era compiuto esito del colonialismo: un sentimento paternalista che vedeva nel colore della sua pelle e nella sua italianissima istruzione la realizzazione perfetta della missione civilizzatrice, oltre che un’irresistibile attrazione sessuale. Lei era l’eccitante principessa d’Africa che recita Dante, suscitava curiosità più che ostilità. Era stato questo clima a spingere il fratello Giorgio alla lotta partigiana, facendo nascere il lui il desiderio di essere “più italiano degli italiani”. Negli anni ’90 Isabella ha invece conosciuto la declinazione più recente del razzismo: aggressivo, violento, frutto del disprezzo di un’Italia in crisi, impaurita e chiusa su se stessa. Solo allora, per la prima volta, viene messa in dubbio la sua cittadinanza. Le vengono chiesti i documenti e assurdamente ripetuto «perché non torna al suo paese?»(p. 395).
La questione identitaria è il testimone che Isabella passa ad Antar e ai suoi lettori, dopo averla personalmente risolta con la terapia dello scrivere. «Aveva tante valigie con sé e aveva bisogno di “tirar fuori” ed elaborare», spiega Antar Mohamed. Alla morte di Isabella è toccato a lui far ordine in questo groviglio di ricordi ed esperienze e per sé ha scelto lo sveviano ruolo di inetto. Neanche il lettore è esente ed è chiamato a riflettere sulla propria identità.
A un paese che preferisce rimuovere la storia piuttosto che raccontarla, Timira mostra perché serve invece rielaborarla e affidarla alla memoria collettiva, svela il nostro bisogno di un mito, non di fondazione, ma di costruzione. Non basta avere una storia trapassata per sapere chi siamo, bisogna aver chiaro il nostro ieri, indagare l’oggi e tramandare gli errori e la vita quotidiana, senza più omissioni e menzogne. Gli italiani sono stati colonizzatori, razzisti e maschilisti (sintomatici ritratti negli estratti dal dattiloscritto inedito di Isabella Marincola e Bruna Galvani Baxsan “Ma gli italiani sono proprio così?”, p. 466), questo va ricordato o ancor meglio raccontato per capire perché siamo quello che siamo e per migliorarci. L’identità si forma sulla consapevolezza, non sull’ignoranza.
I miti possono anche essere risemantizzati per rivivere ed è il caso della Medea di Corrado Alvaro alla cui messa in scena partecipa Isabella. «La sua Medea era un essere indifeso […] nel testo la si chiamava straniera, barbara, fattucchiera, vagabonda, megera, vipera. Sarebbe bastato sostituire “fattucchiera” con “bagascia”, per ottenere l’elenco di appellativi che mi ero sentita affibbiare in 25 anni di esistenza […] Medea, ci disse [Corrado Alvaro], è l’antenata di tutte le donne che hanno subito la persecuzione razziale, di tutte quelle che vagano senza passaporto, da una nazione all’altra, e abitano i campi di concentramento, i campi profughi» (p. 237)
La vita di Timira, narrata, diventa uno dei tasselli che ci mancano per trovare la nostra immagine.
Scopriamo grazie a lei un’Italia nella quale le cosiddette “seconde generazioni” hanno
radici e un luogo del passato, non sono un ritrovato degli ultimi anni al quale c’è ancora bisogno di “abituarsi”; un’Italia meticcia da sempre, senza saperlo, dove il razzismo nasce anche da quest’ignoranza. Ci accorgiamo che è con le storie che si crea la coesione. E ricordiamo, o forse ancora una volta scopriamo, che dal 1949 al 1960 l’Italia, facendo leva sulla resistenza partigiana, è tornata ad amministrare la Somalia “per insegnare la democrazia”. Ma A.F.I.S. per i somali non potrà che significare Ancora Fascisti Italiani in Somalia. Non mutano, infatti, l’atteggiamento da colonialisti e anche qualche legge, come quella che vietava alla donne autoctone di riconoscere i figli avuti da italiani, che quindi, se non riconosciuti dal padre, finivano apolidi negli orfanotrofi.
L’affermazione, pur veritiera, «più si scrive più si appartiene a se stessi» (p. 504), si può legittimamente parafrasare in «più ci si racconta più si appartiene a se stessi».
La metafora di questo passaggio di testimone della ricerca identitaria è Itala, la signora bolognese malata di Alzheimer a casa della quale Isabella lavora. Itala, che confonde i propri ricordi con quelli somali di Isabella, che, in un solitario monologo, ripete la sua vita a memoria, per non dimenticarla e che, arrivata al 1956, si blocca e non sa più come continuare. C’è qualcosa che non torna: «Cus’è suzès dal zincuantasî?» (p. 229).
«Ti viene il dubbio che Itala […] ripeta senza badare al senso delle parole. Infatti si blocca sempre sulla stessa frase, non si schioda da lì, e allora ti domandi che valore abbia l’esercizio, se da una parte trasforma i ricordi in un ritornello vuoto e dall’altra li chiude in trincea a difendere una posizione» (p. 229). Identità è anche avere una definizione nella quale riconoscersi ed essere riconosciuti. Isabella, in un momento di disperazione, la cerca nel dizionario. Scorre le voci profugo, rifugiato, sfollato, cittadinanza e ci ricorda quanto le parole siano importanti perché coproduttrici di legittimazione sociale. «Essere profughi significa avere troppe parole tra sé stessi e il mondo» (p. 392), conclude, e per noi è un monito a farne un uso più corretto e umano, soprattutto nei media e nella politica.
Altri lettori troveranno nel libro la questione di genere, il divorzio, il rapporto madre-figlio, il significato e l’importanza della cittadinanza (soprattutto in un paese che ancora non la riconosce ai figli di immigrati nati e cresciuti qui), la tortura dell’essere profugo e altro ancora, perché «le storie sono di tutti – nascono da una comunità e alla comunità ritornano – anche quando hanno la forma di un’autobiografia e sembrano appartenere a una persona sola, perché sono le sue memorie, la sua vita. Com’è il caso di questo romanzo meticcio» (p. 503).
Timira è un libro da leggere, importante perché tramite una storia esemplare fa luce sul nostro bisogno di storie. Mostra la via di una narrazione necessaria, non resta che seguirla.
P.s. Dimenticavo, leggete i titoli di coda! Anche segli autori dicono che si possono saltare, ne vale la pena.
Wu Ming 2, Antar Mohamed, Timira. Romanzo meticcio, Torino, Einaudi. Stile libero big, 2012, pp. 536,
€ 20,00.
N.B. Le citazioni di Wu Ming 2, Antar Mohamed e Itala Vivan sono tratte dalla presentazione di Timira del 18 giugno 2012 alla libreria Azalai di Milano.