di Giacomo Raccis
Un diario a otto mani per raccontare il presente del nostro paese. Andrea Bajani, Michela Murgia, Paolo Nori e Giorgio Vasta: quattro scrittori chiamati in causa da un progetto nato dal basso (l’iniziativa «Diario in Circolo» del Circolo dei lettori di Torino) per raccontare «a staffetta» un anno di vita, pubblica e privata, in Italia. Questo è, a dare un occhio alla bandella e alla quarta di copertina, Presente. Un’idea che può sembrare ai più scettici opportunistica e posticcia, figlia di un momento storico in cui l’impulso a fare il punto della situazione è pareggiato solo dalla propensione a deprecare l’indigenza morale e culturale dell’oggi; la scrittura diaristica come ennesima declinazione di quell’autofiction che sempre più massicciamente, e ripetitivamente, occupa i nostri orizzonti di lettura (ma soprattutto gli scaffali delle librerie).
Eppure, contro ogni maligna aspettativa, questo libro si rivela una piccola pietra preziosa. La narrazione a più voci, o meglio a più coscienze, altera e riformula i caratteri di un genere già di per sé votato a una certa ambiguità («In un diario si dice la verità. O meglio: in un diario si dovrebbe dire la verità», p. 291) per dare vita a un prisma testuale multiforme e drammaticamente autentico; la moltiplicazione degli sguardi mette al riparo da un «ombelicismo» compiaciuto e compulsivo. La prima persona singolare si impone come requisito necessario a fare del racconto sul presente anche una riflessione sul senso di chi nel presente compie il mestiere di scrivere.
La tematizzazione della condizione di scrittore, legittima pur se con qualche vena di autocompiacimento, spicca come carattere determinante di tutte e quattro le narrazioni incrociate, secondo differenti declinazioni. Centrale è l’idea che scrivendo del presente in maniera tanto provocata (e provocatoria) quanto necessaria lo scrittore sia chiamato a rispolverare un’antica funzione, oggi sempre più omessa: farsi coscienza civile della società a cui appartiene. Di fronte a questa sfida l’uomo di penna (e la definizione di gender non è casuale) si mostra in preda a una crisi profonda, che se non impedisce di guadagnarsi da vivere «imbrattando carte» (di libri o giornali), tuttavia lascia di fronte alla scelta di una necessaria evasione. Quella fisica di Vasta, che gira per l’Europa a studiare i luoghi che ospiteranno il suo prossimo romanzo e, per questo, si trova costretto in una condizione di «strabismo divergente» (p. 91), necessario a connettere due percezioni opposte e simultanee, quella dell’Italia e quella dello «spazio letterario». Ma anche l’evasione «domestica» di Bajani, per il quale l’attaccamento all’universo chiuso del quartiere dove è sempre vissuto («Gli ho detto che non lascerò mai San Salvario», p. 17) rappresenta l’estrema illusione di una pretesa d’appartenenza che non trova riscontro nel comune universo dei valori («La mia amica Federica mi ha detto che ai miei lettori…che io viva a San Salvario…non gliene frega niente», p. 12) e che anzi riflette la mancata emancipazione intellettuale dell’uomo («Nel complesso, non ho capito perché sono stato invitato a questo festival», p. 108). E ancora l’evasione intellettuale di Paolo Nori, che trova giustificazione alla propria parola solo quando è citazione di quella altrui: egli cerca nella cultura russa i riferimenti per comporre un discorso sul 150° dell’Unità d’Italia («scoppiavo a ridere perché pensavo che era stupefacente che mi chiamassero a me…in occasione del centenario dell’unità d’Italia e mi lasciassero dire quello che volevo», p. 58) e trova nella realtà che lo circonda stimoli a un ricordo che assume immediatamente le forme di un discorso già pronunciato («C’era, non so, mi veniva in mente, lì a Santarcangelo, una poesia di un poeta di Santarcangelo, Raffaello Baldini», p. 140).
Al fondo, comune a tutti e tre, c’è un dubbio che riguarda lo stesso principio di autorevolezza di chi scrive:
E delle volte, al mattino, appena alzato, facevo per incamminarmi, per andare al computer, per scrivere, e dentro di me qualcosa diceva: Aiuto. E mi fermavo e mi chiedevo: Come, aiuto?
Come se non avevo, non so, come se non avevo il diritto. Come se non era il mio mestiere.
(p. 234)
Il timore che la parola una volta pronunciata scompaia, come «qualcuno che ruba le molliche di pane a Pollicino dopo che Pollicino è passato» (p. 27), trova però un momentaneo affievolimento nella speranza che la costanza (non la fedeltà) richiesta dal diario consenta di ricostruire un discorso destinato a conservarsi, a comunicarsi.
A differenziarsi, e non è un caso, è l’unica donna, Michela Murgia, che affronta l’impegno del presente attraverso la necessità della presenza, ma non indiscriminata né scontata. È a partire dal suo discorso che il mestiere di scrivere trova finalmente la propria cifra nella necessità di intervenire nella realtà attraverso un’appropriazione delle parole. La conflittuale, iper-consapevole – ma anche volontaristica – spinta alla partecipazione, alla manifestazione e, più semplicemente, all’azione politica («io voglio fare atti politici autentici», p. 116) rappresenta per Murgia il pendant performativo di un lavoro che si compie prima di tutto sul piano del discorso: la realtà, la dinamica sociale, il dibattito politico si configurano come un campo d’intersezioni tra differenti trame e lo scrittore ha il compito di diffondere la consapevolezza circa il potere che le storie hanno di trasformare – ma anche di manipolare – la realtà. All’importanza di comporre narrazioni si associa la necessità di riconoscere, e far riconoscere, quelle che già esistono e che spesso ci vengono imposte. È un dovere che non può essere eluso, perché intrinseco alla coscienza intellettuale di chi scrive: «ma il potere creativo delle tecniche della narrazione ha già mostrato troppe facce perché mi possa permettere di agire come se non le avessi viste» (p. 223). Lo strumento dello scrittore sono le parole e attraverso queste egli deve misurare le proprie capacità di intervento nel presente: da questo dipende la possibilità di ritrovare il proprio ruolo sociale.
Questa presa di coscienza conduce così a un secondo piano del racconto, una trama che si sviluppa sottotraccia, e che trova, questa volta sì, d’accordo tutti gli autori. Se l’ispirazione creativa sembra in questo momento fare difetto, chi scrive deve affidarsi alle proprie capacità di analisi – indubbiamente sviluppate in tutte le quattro voci – per individuare i percorsi lungo cui ricostruire una narrazione condivisa. E spontaneamente il discorso di Nori, Vasta, Murgia e Bajani finisce per convergere su un impulsivo bisogno di semplificare e razionalizzare: la comunicazione, com’è ovvio, prima di tutto. Fin dalle prime pagine, infatti, si delineano i contorni di un tentativo di reinventare una lingua che non sembra più in grado di restituire la consistenza effettiva della realtà. Il linguaggio, reso ormai una fantasmagorica macchina di figure retoriche convenzionali, e quindi mute, ha bisogno di essere riportato ai suoi elementi primi: il legame tra significante, significato e oggetto. Si spiega così l’attenzione soppesata che i quattro concedono a tutte quelle forme di comunicazione verbale che riempiono il nostro quotidiano: uno sguardo straniato alle parole e ai mondi che queste possono evocare permette di ravvisare il senso «materiale» che delinea una mail dello spam (Vasta) così come la narrazione mediatica di una carriera politica (Murgia). Per operare questa purificazione dello sguardo la strategia più funzionale è quella che riduce («come se una cosa senza un aggettivo fosse troppo povera», p. 95) e abbassa.
Ed è normale che gli interlocutori privilegiati diventino i bambini – che insolitamente riempiono lo spazio del racconto: la loro prospettiva estranea a ogni costruzione culturale e politica diventa un modello di consapevole ingenuità. È il loro modo di maneggiare il linguaggio, la loro disinvoltura nel ricomporre le storie che riesce a restituire più limpidamente l’effettivo stato delle cose: così Bajani prova a spiegare il ricatto di Marchionne agli operai della Fiat con l’immagine del bambino che «veniva a giocare al campo e portava il pallone» e se non l’aveva vinta se lo portava via («Sergio dice che se vince il No, si porta via il pallone», p. 16); Murgia si fa prendere da un capriccio infantile e reclama «il diritto personale alla rivoluzione grammaticale», assegnando nuovi nomi ai tempi verbali («Vorrei, ma non posso. Presente precario / Non volevo. Passato consolatorio», p. 125); Nori affida a un racconto per bambini (Favola di Mirco) il proprio congedo dal diario collettivo, riconoscendo nell’immediatezza comunicativa, anche quando divagante, il primo valore da garantire.
E allora lo scrittore, fin quando andrà avanti a crogiolarsi in una compiaciuta autocommiserazione iper-intellettuale; fin quando si esprimerà attraverso la frusta lingua del discorso di massa; fin quando non avrà compreso il senso morale dell’appartenere al «presente» di una società; fin quando, infine, terrà inerte nelle proprie mani quell’inarrestabile potenza che sono le storie, sarà destinato a una marginalità malinconica e irreversibile, emblematizzata da una consapevole «sterilità culturale». Nel piccolo «esercizio commerciale» messo in piedi da Marta, la nipotina acquisita di Giorgio Vasta, riflesso di quel più grande «mercato» che è la nostra società, l’amico che scrive libri continuerà a «costare otto», meno della mucca, meno del lupo da uova (p. 175). Solo costruendo un discorso che risulti finalmente comprensibile, che sappia attingere alla spregiudicatezza e alla fantasia, ma anche alla semplicità dei più piccoli, chi si è assunto l’impegno della scrittura potrà pensare di uscire dal limbo in cui oggi si dibatte e tornare finalmente a essere forza attiva: creativa.
Marta smette di guardare in su, si gira verso di me.
Vorrei domandarle se c’è la speranza che l’anno prossimo giorgiovasta faccia le uova.
(p. 289)
A. Bajani, M. Murgia, P. Nori, G. Vasta, Presente, Torino, Einaudi, 2012, pp. 300, € 17,50